una montagna, forse metafora di una vita tutta in salita; o forse il segno di un'esistenza che presente il fatto naturale che un giorno il cammino si interromperà, magari ad un passo da ciò che si desidera ancora. una montagna che mi rammenta un famoso paradiso, che poi - come gli alberi di natale all'incontrario, visti ieri attraverso una rutilante vetrina - è un gioco per adulti che non vogliono crescere mai. e allora già da oggi in predisposizione d'animo, come un racconto che sa come finire…. eppure fino all'ultima pagina non possiamo essere certi di niente. come ce ne andremo? con gesto delicato, pudico, quasi invisibile o con ultima scarica di forza? via da questo mondo, tutto sommato, gravido dei nostri segni.
ma intanto ci tocca vivere. nella forma che ci è stata data per capriccio o per volontà oscura. ci tocca salire, come i bartali e i coppi della favola dello sport, o come il già dimenticato gregario. ci tocca vivere sottoforma bellissima e capricciosa; ci tocca vivere perfino sotto falso nome: o il nome di chi ci ha presi orfani su questa terra e ci ha dimostrato di cosa è capace l’amore.
c’è tutto un mondo di cose che là fuori vivono la loro inafferrabile esistenza… è stato più forte di me: questa tua meravigliosa poesia mi ha spinto, non so come, a riaprire una pagina che non aprivo da tre anni. ancora oggi mi commuove profondamente. lunga vita a te carissima amica del pensiero e della pittura
Alberto Savinio LA NOTTE SUL BORGO Niente paradiso, se non nel più profondo del nostro essere, e come nell’io dell’io; e inoltre per ritrovarvelo, bisogna aver fatto il giro di tutti i paradisi, trascorsi e possibili, averli amati e odiati con la goffaggine del fanatismo, scrutati e respinti con la competenza della delusione. Si dirà che sostituiamo un fantasma a un altro, che le favole dell’età dell’oro non valgano meno dell’eterno presente al quale pensiamo, e che l’io originario, fondamento delle nostre speranze, evoca il vuoto e in fin dei conti vi si riconduce? Sia pure! Ma un vuoto che dispensa pienezza non contiene forse più realtà di quanta non ne possieda la storia nel suo insieme?
Emil Cioran da STORIA E UTOPIA
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Siamo nel 1939 e lo scrittore (fratello del pittore Giorgio de Chirico) vaga tra gli Abruzzi e la terra degli Etruschi, tra Cerveteri e Tarquina. Le pagine che ho scelto sono quelle che introducono questo viaggio, nel bel libro DICO A TE, CLIO, edito dalla piccola biblioteca Adelphi. Ho poi unito in un collage, il misterioso incipit: specie di viaggio, di promessa nell'aldilà, e il pezzo finale dove questo viaggio non si potrà compiere. A margine, il finale che cita un pittore e delle apparizioni. Per chi ignora questo libro, ometto tutta quella deliziosa e ironica curiosità, di chi evoca tutto un mondo catturato dai nomi. In definitiva per chi vorrà leggere per intero il libriccino, si tratta della sensibilità e di un pezzo di vita dell'artista stesso, in un anno tragico per il mondo intero. Pagine meravigliose, dono di viaggio, inun paese tanto meraviglioso quanto in pericolo. E’ l’Italia delle chiese e dei santi, dei piatti tipici, degli artisti e del paesaggio.
Questo mondo, che ha lasciato tracce più o meno profonde nel territorio, sembra diventato tanto lontano dal nostro. Questo recupero illuminante, perfino per quella poesia che io vorrei pescare in quel lato oscuro della storia, lo devo ad una pagina di Hairetikos, “Partigiani del nulla”.
DICO A TE, CLIO
di Alberto Savinio
Quella mattina Charun mi svegliò,
colui che scorta le anime da questa
all’atra vita, e mi disse che bisognava
partire. Non pensai neppure a farmi
mostrare il mandato di cattura, e
senza far motto lo seguii.
Clio κλείω: chiudo. La storia raccoglie le nostre azioni e le depone via via nel passato. Una perfetta organizzazione di vita farebbe sì che tutte le nostre azioni, anche le minime e più insignificanti, diventassero storia: per togliercele di dosso, per non farcele più sentire sulle spalle. L’uso di consegnare a un diario le nostre azioni giornaliere, è una regola d’igiene; e l’uomo di mente operante è implicitamente un memorialista, che nei memoriali, ossia nelle opere, depone le sue "azioni interne". Ci si dovrebbe abituare da piccoli a tenere un diario, siccome ci si abitua a pulirci i denti. Quanto a lavarci la faccia di mattina, lo facciamo per pulircela dei sogni, queste "azioni" del sonno, questi "peccati" notturni. Quella sarà civiltà perfetta che tutto tradurrà in storia, e ci consentirà di ritrovarci ogni mattina in condizione di novità, liberi del passato. Ciò che noi otteniamo con la storia altri l’ottengono con la confessione, e chiamano peccati ciò che noi chiamiamo azioni.
Per usare lo stesso linguaggio, diremo che qualunque azione è peccato, e vivere, questo séguito ininterrotto di azioni, è un continuo peccare. Certuni pongono anche la poesia tra le forme di catarsi, dicono che la poesia ci libera dalla servitù della passione; ma sbagliano. La poesia - e le arti, strumenti della poesia - non ha rapporti con la passione, ma si serve di elementi che stanno di là dalla passione, incorruttibili. S’intende che qui si parla della poesia nella sua qualità metafisica. I mali del mondo, i suoi ritardi, i suoi intoppi, la sua stupidità sono imputabili all’incompleto funzionamento della storia. Il passato marcisce su taluni uomini e si putrefà. Dentro un apposito buio costoro brillerebbero della sozzura che li riveste come una crosta. Cumuli di materia non "storificata" ingombrano le vie del mondo. Questo continuo buttarsi il passato alle spalle, questo continuo "purificarsi"... Ha dunque un fine la vita? Nell’ultimo sguardo che daranno i nostri occhi, nell’ultima luce che darà la nostra intelligenza, quello sguardo, quella luce non al passato saranno rivolti, posto definitivamente dietro la porta chiusa, ma all’avvenire. E l’avvenire, come avrete capito, signori, è la morte, inazione per eccellenza e suprema purità. Al disservizio della storia supplisce in parte una storia non scritta, una storia non orale, una storia non mnemonica, una storia non "storica", ma una catarsi naturale e spontanea: un "fantasma" di storia. E’ stato smentito finalmente l’assioma assurdo, l’assioma crudele, l’assioma coatto che "nulla si perde nella natura". Di là dalle più tenebrose profondità, di là dai più insondabili abissi, la nostra anima riconoscerà la vera meta della vita: sparire.
Accanto alla storia, che ferma via via le azioni degli uomini, le rinchiude, le rende inoperanti, c’è il fantasma della storia: il grande buco nero, il vuoto che assorbe via via le azioni che sfuggono alla storia, e le annienta. La nostra vista straordinaria, resa straordinariamente acuta in un momento straordinario della nostra vita, ci ha consentito per un attimo di rivedere dentro quel vuoto le azioni annientate, i fatti che non esistono più, le vicende scomparse, ciò che nessuno potrà mai più rivedere. Giardino leggerissimo, nel quale morivano i fantasmi dei fiori. E se i fatti annientati fossero i soli memorabili? Se il massimo destino delle vicende umane, se la sorte più nobile, più alta, più "santa" di noi e dei nostri pensieri fosse non la storia, ma il fantasma della storia?
Arnoldo Bocklin preparava le sue tele in grigio; poi, con una spugna intrisa d’acqua, abbozzava a grandi masse la composizione che aveva in mente, infine si sedeva e contemplava a lungo quel prefantasma della sua nuova opera. Se l’umido abbozzo lo contentava, tornava su col colore e ne fissava la traccia , se no lasciava che questa, a poco a poco, vanisse.
Opere che entrano nella storia - opere che entrano nel fantasma della storia. Anche i ricordi, lentamente ma inesorabilmente, vaniscono.
E’ mezzogiorno, che per i morti è mezzanotte. I boccaporti delle tombe si aprono a uno a uno, appaiono sulla soglia i nostri amici nuovi e carissimi: il barone etrusco, l’Andrea Sperelli del v secolo avanti Cristo, gli uomini rosa, le donne col tùtolo in testa, i cavalli che ridono, tutti. Alcuni restano a terra, altri si sollevano come palloncini, tutti assieme compongono un graffito nel quale più per intuizione che per scienza leggiamo « Perchè parti? Tuona la guerra sul mondo. Resta con noi e ti troverai benone ».
Che risolvere? Tornare tra i vivi? Ascoltare il consiglio degli Etruschi morti?...
«Come! Mi porti a visitare il paese
tuo, mi fai intravedere quanto bene,
quanta pace, quanta dignità è in
queste case che sembrano vuote e
invece sono... (spes mortuum: l’es-
poir des morts) e ora mi abbandoni?».
Charun risponde:
«Che hai fatto per meritarti un condono
di pena? Ti tocca lavorare ancora, faticare».
«Charun prendimi con te!».
Charun non mi ascolta. Si allontana.
Sparisce come luce che si spegne nella luce.
E rimanere, ancora, ancora, ancora...