È ancora vivo il ricordo di quel tuono
che mise fine al piano silenzio
ed ogni cosa, la rianimò d’uccelli
venuti via dai rami,
così che nudi rimasero poi gli anni
come li lascia spogli
l’autunno, dopo il vento
di ogni chiodo di carta, i melograni.
Se ne inventarono di storie
e di leggende,
di spiegazioni poco probabili:
la notte
io dico se lo prese, come una pelle morta
e il giorno che riluce ai contenti
smise il canto
le olive si spezzarono
come a una grandinata,
e il mare si dipinse del loglio
e del carbone.
Io dico che la vena si scisse nella terra
che il sonno dei diamanti
ne uscì come perduto
e il solco della lunga cordiglia
prese il cuoio, e gli speroni d’oro zecchino
e poi un cappello.
Io dico che la notte lo prese,
e suscitando spume alla bocca
e nel costato, fece volare mille colombe
della luna;
con ruote di magnesio
viaggiò le stelle in cielo
e le puntò con spilli garofano ai roseti.
Le prosciugò per fonderle
nei seni alle fanciulle,
per viverle alle lingue delle pettinatrici
per sollevare gambe di giunco
e fianchi belli, a portatrici d’acqua
nell’Africa assetata.
Io dico che la notte lo prese
ed alle rane, fornì il ruggito minimo
da venti magnitudo;
toccò le ali in pietra ai tacchini
e fece i sassi, più levigati e belli leggeri
per i giochi
dei figli dei migranti allo stagno
stessa mano
io farro, tu l’avena più bionda
stessa mano
che lungo tira il ciottolo sul dorso del creato.
Io dico che la notte lo prese,
la notte
se lo prese
io dico
Massimo 19 marzo 2008