Una semplice storia d'amore

Conobbi Diego in un pomeriggio di noia scacciata da un cuba Libre sorseggiato ad un tavolino del Giardino nei viali di Modena.
Faceva caldo, quasi come lo sguardo che si posò su di me: occhi nocciola che illuminavano un viso abbronzato, fisico da pallavolista, mani che trasmettevano sicurezza.
Antonella me lo presentò come l’amico al quale aveva tenuto il bambino durante una vacanza che avrebbe dovuto avere, come scopo, il ricucire un rapporto matrimoniale ormai così strappato che nessuna opera di rammendo avrebbe potuto rimettere insieme. Ero poco più che una ventenne incosciente e mi persi nel fango degli occhi di Diego in un battito d’ali.
Non fu una bella storia fin dall’inizio: la mia famiglia contrastava i nostri incontri.
Ai tempi, mio padre e mia madre erano timorosi dei giudizi della gente che si sarebbe stupita del come una ragazza potesse perder tempo con un uomo separato e con un figlio di tre anni.
In aggiunta, dopo le prime settimane idilliache, emerse un problema che mi lasciò spiazzata ed impotente: Diego era alcolizzato.
Bastava pochissimo, due dita di vino, e iniziava a parlare con voce impastata; diventava violento, nelle parole e nei gesti.
Io facevo di tutto per tenerlo lontano da bar, osterie e discoteche tentatrici; andavamo al cinema, a passeggiare sotto i portici tenendoci la mano.
Era quello il Diego che amavo, non il Diego con gli occhi iniettati di sangue che mi chiamava alle due di notte per supplicarmi di andarlo a prendere perché non era in grado di guidare.
Io mi vestivo, prendevo la mia cinquecento e andavo a recuperarlo, incurante delle preghiere di mia madre che piangeva vedendo sua figlia buttarsi via in quel modo, o delle minacce di mio padre, che minacciava di farmi trovare la porta sbarrata da un catenaccio.
Avrebbero potuto legarmi ed avrei trovato il modo di scappare, di correre da lui; nulla avrebbe potuto impedirmi di ascoltare la sua voce che avevo dentro sempre, con tutte le sue intonazioni.
Gli episodi da sporadici divennero frequenti; nemmeno le uscite domenicali con il suo figlioletto evitavano il suo inebriarsi, il suo volersi uccidere e perdersi nell’alcol.
Suo padre e sua madre mi chiedevano aiuto perché avevano compreso che per lui ero importante; ci provai, per tanti mesi ci provai a diventare importante al punto di convincerlo ad andare in un centro specializzato e farsi curare.
Non ci riuscii.
Me ne resi conto un mattino, dopo l’ennesima corsa notturna di recupero ubriaco presso un night club; lo caricai, lo portai a casa, con sua madre lo mettemmo a letto e me ne andai.
Non mi sentì e non mi vide mai più: gli scrissi una lettera, pregandolo di non cercarmi.
Lui non mi rivide, io sì.
Qualche anno dopo.

Dopo mesi e mesi di silenzio, arrivò una telefonata in ufficio e la sua voce nelle orecchie annullò tutte le distanze.
Per un solo momento però, perché troppo doloroso era stato il dimenticarlo e troppo doloroso sarebbe stato il riavvicinarmi a ripetere nuovamente una strada che già sapevo essere piena di spine.
Ci salutammo educatamente, promettendoci di sentirci presto.
Quella telefonata mi parve segno di presagio quando, il mattino dopo nell’andare in banca, vidi attaccate al muro della chiesa delle epigrafi: urlavano il nome di Maurizio Fontana, sotto, in piccolo, Diego.
Si chiamava Maurizio, ma per me era sempre stato Diego.
Andai a casa sua, inebetita.
Là trovai sua madre, con una cassetta verde sulle ginocchia, in lacrime.
Mi porse un foglio ripiegato, dicendomi che lo aveva trovato sul comodino la sera innanzi, appena Diego era uscito di casa per non tornarci mai più: era la lettera che gli scrissi molti mesi prima e mi sentii morire, come se un rullo compressore mi stesse schiacciando a terra, facendo fluire ogni stilla di sangue dal mio corpo.
Si era schiantato contro un platano, mentre tutti festeggiavano la vittoria della nazionale di calcio, Diego si era voluto prendere la sua ultima, definitiva vittoria, dirigendosi con l’auto a tutta velocità contro quegli alberi che costeggiavano una strada larga e piana.
Non un incidente casuale ma suicidio: quello fu il verdetto della stradale che emise dopo aver raccolto la testimonianza di chi era fermo al distributore lì vicino ed aveva assistito, impotente, alla dinamica dell’incidente.
Lui non mi rivide mai più, io sì.
Lo vidi dentro la cassa di legno dove lo avevano composto, a casa di suo padre.
Avevano fatto miracoli, era ancora più bello di come lo ricordavo, nulla da quel corpo freddo faceva pensare al corpo maciullato che dissero aver estratto dalle lamiere.
Sono ventiquattro anni che il sedici giugno porto un fiore a Diego, in un piccolo cimitero di provincia.
Lo lascio davanti alla tomba di famiglia, non posso entrare a metterlo in un vaso, so che provvederà sua madre appena possibile.

Non avevo mai scritto di lui, ma è da un paio di giorni, da quando si è iscritto Pecoranera che si firma Diego, che quel nome mi batte in testa.
Ed è giusto che ne abbia parlato, sto meglio adesso che l’ho fatto.
Lui, da lassù, sono certa mi stia sorridendo, con i suoi occhi color castagna e la sua bocca ironica.
E sono anche certa che alza il bicchiere, alla mia salute.