Mi sveglio di soprassalto passando dallo sdraiato al seduto con un affanno più mentale che polmonare, punto da piccoli segnali nervosi del corpo che trasmettono dolore.
Non è ansia dall’essersi destati all’improvviso, sento la sofferenza carnale che prende il suo meritato posto e lo occupa con priorità assoluta.
La luce è ancora accesa, è rimasta così da ieri; come anche il televisore che trasmette consigli per gli acquisti delle prime ore mattutine. Non ricordo neanche cosa guardavo quando mi sono addormentato.
Dalle finestre si percepisce la prima luce del giorno.
Vorrei aver navigato in un sogno fatto di bende, garze e pomate, corsie profumate di fiori stordenti e ci sarebbero state anche le infermiere da cinema trash degli anni 70, scollacciate e col linguaggio colmo di doppi sensi.
Invece è una realtà, ineluttabile, incontrovertibile e inoppugnabile, come ogni realtà, del resto.
Ho l’avambraccio destro completamente fasciato.
Non ci sono stati fiori, infermiere e corsie alla Prof. Sassaroli, sorrisi ed ambiente da sogno, ma l’inaspettato viaggio in Pronto Soccorso, medici efficienti ed un male da bestie.
Un salsicciotto bianco, opulento come un grosso grasso verme bozzolo dentro il quale spero che rinasca il mio arto farfalla. Spuntano solo i mozziconi di dita che muovo nervosamente sperando una rivitalità ad una infermità.
Mi alzo e cerco il grande specchio nel quale il colore del nudo è interrotto da questa macchia che non mi sento di definire candida, anche se rientra nelle caratteristiche di quello spettro di colore.
Che palle!
Confronto l’altro avambraccio, quello sano, il sinistro; vedo un polso che adesso mi sembra bello anche se robusto, una mano adesso nervosa, una pelle adesso tonica sopra muscoli evidenti. Ma li noto in questo modo perché dall’altra parte sono nascosti dalla voluminosa escrescenza in tessuto sanitario. E me ne rendo conto.
Un sospiro di rassegnazione.
Va bene, una giornata nuova inizia.
Pragmatismo.
Ho avuto un piccolo incidente, sono infortunato, oggi non si lavora e devo andare in ospedale per fare la prima medicazione, ho tempo a disposizione, è necessario lavarsi, vestirsi, colazionarsi e recarsi laggiù.
Benissimo.
La doccia.
Una bella sega.
Non posso entrare in cabina così.
Scarabattolo sotto la cucina e trovo il sacchetto più grande che c’è, quello con la scritta COOP in evidenza, infilo l’estremità malata e cerco di legarlo con l’unica mano libera aiutata dalle arcate dentali.
Il getto di acqua calda è liberatorio, anche se mi fa ricordare che un altro getto di altra acqua molto più calda è stato ciò che mi ha reso in quella situazione.
Massaggio ed inschiumo, lentamente, con cura ed occhi chiusi.
Quando li riapro vedo l’acqua ai miei piedi rossa.
Anche altre parti del corpo sono diventate rosse.
Anche il sacchetto è rosso scolorito informe.
Maledico solo per questa volta i colori biodegradabili che si sciolgono, mica si legge da qualche parte che la stessa scritta COOP si possa liquefare. E se vai a fare la spesa con 40 gradi di temperatura che succede?
Sciacquo tutto, esco e mi asciugo, togliendo quel merdoso sacchetto ora diventato bianco.
Occhei, la barba adesso.
Si, una parola.
Con la destra fuori uso sarà un casino.
Del pennello non se ne parla.
Mi viene in mente che adesso posso utilizzare uno di quegli Shaving Foam spray che vengono regalati quando non si sa cosa donare a noi uomini, non pensando che essendo quasi tutti profumati, ti ritrovi ad avere addosso l’odore della schiuma, poi la fragranza del dopobarba e poi magari due spruzzate del profumo ufficiale per completare l’opera, ad emulazione del gobbo di Suskind.
Si, però come si fa a darsela sul viso?
C’è la pubblicità, no? Come se non li avessi mai visti i figaccioni da mascella quadrata che si spalmano la soffice crema sul viso sorridente.
Ed allora imitiamoli, no?
Ecco, si, una bella palla da neve sulla mano sinistra e vai sul liscio, anzi, sull’ispido.
Suona un telefono. Chopin è nell’aria ed entra in bagno.
Non è quello del lavoro che è anche diventato troppo personale, questo suono è del personalissimo, che hanno in pochi.
È Lei.
Però come diavolo rispondo?
La sinistra è piena di schiuma, la destra ha solo parti libere di falange.
Ed ho la faccia avvolta dal bianco sino alle orecchie.
Lo prendo con le dita libere della destra fasciata, a giusta distanza dall’orecchio perché non entri in apnea da Intesa pour homme.
“Ciao tesoro, tutto bene?”
“Si, sssssenti, possiamo sentirci dopo? Sto facendo la barba.”
“…maaaa… cosa fai dopo?.....stai bene?....”
“Si, sto bene, dai ti chiamo dopo”
“Vabbè… ciao”
Lo so che vorrebbe fare la solita lunga telefonata di inizio giornata, ma devo posticiparla.
I giovani amori hanno bisogno di considerazioni illimitate, al di là della ragionevole ragione.
Comunque usare la sinistra per azioni che sono sempre state svolte dalla destra mostra dei limiti fisiologici ai quali non si sottrae neanche il rasoio, anche se usato piano e con scrupolo.
Passando alla vestizione si attuano le difese mentali che fanno scegliere abiti attraenti in contrapposizione al corpore non sano ed il pantalone di bel taglio e stoffa sembra il grido al mondo per far vedere che sto bene a prescindere, ma la realtà ritorna ineluttabile quando i lacci delle scarpe abbinate richiedono di essere legati fra loro; ho la sensazione di essere in una pantomima di fronte a questo stringato che non riesco ad interpretare nella sua funzione e mi volto di colpo verso la giacca pronta sul letto, pensando cose molto più razionali dell’estetica.
Cerco di infilarla per prova, così, a torso nudo, ed il braccio imbardato non passa dalla manica.
Vaffanculo.
Tolgo tutto e lascio scompaginati sul pavimento quelli che adesso mi sembrano stracci, per risolvere tutto con un paio di jeans, mocassini e giubbotto comodi.
Devo abituarmi per un vita a tempo determinato con la sinistra attiva in ogni funzione quotidiana, altrimenti vivrei male o dovrei avere una badante come gli anziani.
Anche una colazione al bar diventa momento dove sperimentare il prendere una focaccia, bere un bicchiere d’acqua e girare il cucchiaino di un caffè in modo insolito.
È buono quel triangolo di quasi pane, è ancora caldo per il breve trasporto dalla panetteria vicina; però quando Chopin si diffonde ancora nell’aria non so dove metterlo e lo tengo infilato in bocca per pescare il Nokia dalla borsa.
È Lei.
Dura parlare ad un telefono con la bocca già occupata.
Non rispondo, anche per l’imbarazzo di parlare vicino a decine di persone al banco.
La Levi’s produsse molti anni fa quel pantalone in cotone derivato dalla tela “Genova” che poi prese il nome americanizzato di jeans e quel modello fu denominato il “cinque tasche”; che siano di quel marchio o di migliaia di altri, originali o clonati, griffati o da lavoro, ci sono le due dietro, le due davanti, e quel taschino dove infilare le dita e far emergere le monete. Cinque in tutto, appunto.
Ci sono milioni di jeans al mondo e fantastico su una possibile linea trend con la piccola cavità per i soldini in metallo messa al lato sinistro, perché sino ad ora non ne ho mai visto un paio e adesso mi servirebbero per tirare fuori l’euro e ottanta, sperando di non essere il solo sulla faccia della terra con questo problema.
Anche l’accensione dell’auto è posta da quella parte e non ricordo un nottolino di avviamento dalla parte opposta.
Ho un moto istintivo di solidarietà con i mancini, che mi ricorda una sensazione simile verso i portatori di handicap quando divenni padre e spinsi carrozzine, che mi ricorda un’altra sensazione simil solidale verso le donne quando andai ad Ibiza da solo e provai sulla pelle ad essere adocchiato, corteggiato, tacchinato dal cascamorto che si siede per caso vicino a te.
Benedico anche la scelta di avere il fortuito cambio automatico, benedico che non esistano quasi più macchine senza servosterzo da girare con due mani, benedico ulteriormente che la leva delle frecce sia dal lato fortunato e sono ulteriormente contento che il biglietto per il parcheggio dell’ospedale non mi dia difficoltà ad essere tirato fuori dal marchingegno.
Maledico invece Chopin che non è collegato ai sistemi per parlare telefonicamente in auto e non lo posso tirare fuori dalla borsa con il braccio salame mentre faccio manovre fra le spine di pesce.
Gli unici posti liberi sono per gli handicappati e mi viene il pensiero fetente che solo per oggi potrei far parte anche io della categoria, ma le gambe per fortuna sono buone e riesco a sistemare l’auto anche se lontano a puttenburgo.
8:40 a.m.
Sono in ritardo di dieci minuti.
Chiedo informazione a degli infermieri fumatori appoggiati ad uno dei tanti padiglioni e mi dicono che posso entrare dal retro di quella grossa Unità di color ocra laggiù.
Passo da una porta per vivande e nel salone centrale trovo le indicazioni per l’ambulatorio di Chirurgia Plastica. Quello che mi sconcerta non è il passaggio dagli spazi verdi di questo ospedale vista mare in una bellissima giornata di sole ad un lungo corridoio con luce al neon e tante porte di studi ed ambulatori e file di seggiolini quasi tutti occupati, ma piuttosto l’odore di malattia, diverso, molto diverso dal solito odore di chiuso. Qui la gente soffre ed emette un respiro che lo evidenzia.
Il luogo del mio appuntamento è in fondo ed il passaggio è incorniciato dalle due parti da gente seduta in attesa, che osserva qualunque camminatore, facendo uno scanner sul perché si trova lì ed indovinando che cosa si sarà fatto tizio o caio.
Vista dalla mia parte, la maggioranza non ha bisogno di indovinelli; le fasciature, bendaggi e larghi cerotti sono significativi di quei perché o perlomeno del dove si abbia avuto il male.
Al termine del lungo corridoio però vedo quel dispensatore di biglietti numerati e l’insegna elettronica superiore con evidente da lontano un bel 08 in rosso su sfondo nero.
Diosanto, non è ad appuntamento come credevo, dalle 8:30 cominciano le visite ed ora sono le 8:50.
Spero di trovarmi per le mani un bel numero 14, 15, 16 oppure anche un 17, chissenefrega, anche se la quantità di persone in attesa mi fanno pensare male.
Sto per arrivare e suona Chopin.
E tutti si voltano, chiaramente.
Anche la scelta delle suonerie dovrebbe rispettare una privacy inversa, non è giusto che altri sappiano i miei gusti musicali.
Prendo il numero con il pianoforte che si diffonde dalla borsa.
Merd!
45.
Quanti diavolo ce ne sono prima di me?
Infilo il biglietto nella quarta o terza tasca ed esco correndo con la mano buona che cerca di placare la ricerca di considerazione della ballata in Re Maggiore.
È Lei.
Subito mi sgrida per il fatto che era in pensiero e che dovevo informarla su tutto. La giovine donna dal giovane amore mi dà lusinghe non dette per il possesso istintivo che ha nei miei confronti, e passa dal redarguirmi se ho fatto questo o quello, alla necessità di dire ai medici di spalmare la pomata col nome impronunciabile con la benda intrisa di un altro medicamento sconosciuto. Sorrido al telefono e dico le bugie degli innamorati che fanno tanto bene al cuore, perché il pensiero “Ma lo sapranno i medici cosa fare” deve rimanere come concetto mentale senza uscire dalla bocca.
I toni cambiano, si addolciscono, inzuccherandosi con le parole morbide e gli occhi spesso chiusi.
Arrivo allo spiacevole di dover chiudere la telefonata per mettermi in coda, perché di solito è Lei a voler avere questo piccolo privilegio. Ha un misto di femminilità bambina inespressa combinata ad una continua lotta sul potere e sull’arte del corteggiamento di portare a sé. Ogni tanto esce fuori una, ogni tanto l’altra, e spesso tutti e due.
Difatti, prima di chiudere, mi dice la parola “amore” e si fa promettere che io confermi al medico i suoi consigli. Ed io mento sapendo di mentire, e rendendola contenta.
Lei ha una spina dentro, la sento, la vedo dietro le sue parole ed atteggiamenti ed è come se mi chiedesse di toglierla; invece mi chiedo se inconsapevolmente non la spinga ancora più in fondo.
Mi siedo in un posto vuoto isolato fra i tanti occupati.
La provvidenziale signora anziana fasciata in testa che non si fa mai i fatti suoi, attacca bottone ricordandomi di mettere l’impegnativa in quel ripiano vicino all’entrata, che non mi ha visto farlo prima.
Al ritorno dall’incombenza vedo il posto che avevo in comodato d’uso, occupato da un uomo corpulento con gamba bendata e stampelle. Trovo un’altra seggiola vicino a due donne trentenni che parlano in tono sommesso davanti a riviste da sala d’aspetto. Non hanno fasciature o garze e sembrano appena uscite da una seduta di body building con gli accessori di tatuaggi e lampade abbronzanti compresi nel prezzo.
Mi volto verso un leggero cigolio di ruote ed arriva un bambino su una sedia a rotelle con un’apparecchiatura strana; da un’asta in ferro che parte dallo schienale della carrozzina, come se fosse un piccolo lampione spiovente, c’è una catena in tensione attaccata ad un casco in pelle. Questo elmetto tramite due larghe cinghie sotto la gola e la nuca tengono il capo del ragazzino eretto. Lo spinge un’infermiera in bianco.
Parlano e sorridono fra di loro anche se non possono vedersi.
Tutti gli altri hanno taciuto, osservato, compatito ed ammirato, tranne le due tipe vicino a me che a differenza della signora di prima si fanno gli affari loro, oppure sono abituate alla visione del dolore.
Io non ci sono abituato.
Non capisco bene questa moltitudine di persone così diverse fra loro, e mi alzo per inquietudine.
Tocca al 20. Sino al mio 45 c’è ancora tempo.
Esco dal corridoio e ritorno nel grande salone d’entrata.
Un bancone moderno con la scritta “INFORMAZIONI” mi attrae almeno per avere il solo permesso di girare in questo palazzone. Dall’altra parte non ci sono infermiere, ma due ragazzi che hanno ambedue quei guanti tipo sportivi con le dita fuori. Chiedo se posso visitare e cortesissimi mi danno anche indicazioni sulla palestra e la piscina. Palestra? Piscina?
Mi stupisce che il tavolo sul quale hanno i gomiti appoggiati ha un ferro tondo nella sua estremità verso gli stomaci dei muscolosi ventenni e quando vedo che lo usano per spostarsi da una parte all’altra come un passamano, stupidamente penso all’opportunità che è un sistema migliore della poltroncina da ufficio con le rotelline.
Salgo le scale che conducono a quell’altra parte del padiglione. Campeggia la scritta U.S.U. nell’ingresso e chiaramente non so cosa voglia dire.
---continua---