Mai sera m’era apparsa così lieve e pura.
Sembrava salita lentamente dalla terra al cielo tra vapori perlacei emanati dalle calde zolle, dalle acque calde e quiete.
Ogni velo s’era rarefatto, dissolto: una tenue chiarità indugiò ancora un poco all’occidente, poi tutto il cielo grado a grado si incupì, fu un’immensa cupola nera appoggiata sul vasto cerchio dell’orizzonte, gremita di polvere d’oro.
Sopravveniva la dolce notte.
Supino sull’erba, folta ed accogliente come capelli di donna, giacevo estatico e come incorporeo: una grande lievità era in me.
Il mio pensiero svagava dietro migranti chimere, e pur lo sentivo così pronto ed acuto da saper rivelare ogni mistero e sciogliere ogni enigma, solo che lo avessi interrogato in quell’ora propizia agli incantesimi.
Ma a richiamarmi d’impeto da quel falso regno poetico alla realtà, bastò un’ombra che s’approssimava nella tenue luce siderale.
Fui d’un balzo in piedi.
Mi incamminai lesto seguendo un sentieruolo, verso un fossato che scorreva avanti e mi trovai subito alle spalle un gruppo di fantasmi.
Scorsi confusamente la chioma di un gelso con la falce di luna che riluceva tra i suoi rami come sottile scheggia di specchio.
Nell’oscurità le distanze ingigantivano, il terreno intorno assumeva un aspetto nuovo, strano, ostile, tanto che mi sentii sollevato allorché ripresi la strada del ritorno.
Tagliai per la più breve sul margine del prato.
In quel tratto mi imbattei in un popolo di larve che, avvicinandosi, assunsero concrete forme dei miei demoni.
Mi accorsi allora di essermi sviato, d’aver arretrato quasi nulla dalla via e ripresi di lena la via del ritorno lungo il solco che avevo lasciato.
Fissai le pupille nell’oscurità, incredulo e un po’ smarrito e il fagotto informe parve avanzare balzelloni dal di fuori in mezzo alla mia via.
Raggiuntolo mi accorsi che era uno spaventapasseri, assai miserrimo che in quel momento mi atterriva.
Quasi mi parve di scorgere un volto cadaverico sul frusto bastone che lo reggeva in piedi.
Ripresi, col cuore di gelo, la traccia della via del ritorno, riconobbi il sentiero e intravidi la meta.
Un’apprensione repentina mi invase e piroettavo su me guardandomi intorno come un satellite al pianeta, quasi a pararmi la destra.
Cupo, lugubre, un rombo di tuono rintronò nel lontano, riempì la notte, s’acquietò nella pace della campagna addormentata.
Riamasi tacito, a guardar dalla parte donde pareva scaturito.
Troppa serenità nell’aria, troppe stelle in cielo per illudermi.
Mi chiamò la morte e non potei negarmi.
Risposto al suo richiamo, tornò il silenzio profondo, rotto solo dal monotono frinire dei grilli.
Domani, maggio 2008
Alessandro