Il telefono lacerò con il suo trillo acuto la quiete della notte. Ada scese di colpo dal letto, gettando un’occhiata frettolosa ai numeri rossi che lampeggiavano sul comodino, segnavano le cinque, l’ansia le serrò la gola ed il cuore iniziò a perdere battiti.
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Ernesto, come ogni domenica mattina, si attardava nel bagno.
Gli piaceva prenderla comoda, la domenica, quando era tutto spostato avanti d’un paio d’ore rispetto agli altri giorni della settimana.
Non era sempre stato così, una volta alle nove del mattino erano già tutti arrivati, il cortile si riempiva delle risate dei nipoti, le biciclette gettate in un mucchio nel cortile, le palle che ruzzolavano da tutte le parti con i rimbrotti bonari quando troncavano qualche fiore dei gerani. Ora i ragazzi erano cresciuti, uscivano la sera, non sarebbero arrivati che per l’ora di pranzo. Petra gli urlò dalla cucina, con quel suo tono teutonico, che la colazione era pronta.
Ernesto stava ancora radendosi accuratamente, la colazione poteva aspettare ancora dieci minuti; si guardò allo specchio, finalmente soddisfatto del suo aspetto, anche se non si riconosceva in quel vecchio che aveva davanti, con quegli occhi che ogni giorno divenivano più ceruli, quelle orecchie che parevano continuassero a crescere a dismisura, un pezzetto di più ad ogni anno che gravava sulle spalle.
Uscì e si accomodò davanti alla tazza di latte ed alle fette biscottate che Petra aveva preparato per lui.
Le rivolse un sorriso: vivevano assieme da parecchi anni, da quando il genero era stato trasferito in città.
A nulla erano valse le suppliche della figlia affinché lo seguisse, la nuova casa era grande, ci sarebbe stato spazio per tutti.
Ernesto fu irremovibile, non avrebbe mai lasciato la sua casa per nulla al mondo, solo dentro la cassa l’avrebbe fatto, con i piedi all’uscio.
Era la casa di suo padre e del padre di suo padre, non poteva pensare di lasciare le radici che erano linfa per i suoi ricordi più felici e quelli più tristi di una vita intera.
La figlia alla fine aveva capito ed acconsentì a lasciarlo nella sua casa, ponendo la sola condizione di cercare una donna disposta a vivere con lui per aiutarlo nelle faccende d’ogni giorno e nella gestione pratica della casa.
Arrivò Petra, con la sua valigia ucraina piena di miserie lasciate a Kiev, assieme ad un paio di figli piccoli, un marito e dei genitori anziani e la speranza, sul volto rubicondo, di potere un giorno tornare da loro per sempre.
Parlava poco l’italiano e per Ernesto divenne un’abitudine passare le sue serate a leggere con lei alcuni classici, ed insegnarle così, poco a poco, a parlare correttamente.
Erano diventati una strana coppia, quei due: legati dal filo sottile della nostalgia e dell’amore per le persone a loro più care, sempre presenti nei loro pensieri, seppur così lontani.
Petra lo aiutò ad alzarsi dalla sedia e lo accompagnò nel patio, facendolo accomodare sulla poltrona preferita, all’ombra dei tigli che giocavano a nascondino, con il loro intenso profumo, con il sole limpido di settembre.
Ernesto riempì la sua pipa, socchiudendo gli occhi, già pregustando il piacere di quell’unica fumata giornaliera che gli veniva concessa.
Guardava il suo giardino oltre il patio, il prato curato con l’erba di un verde acceso, i vasi di gerani in un angolo che ancora osavano colorare lo spazio con i loro fiori, la selva di oleandri dall’altro lato.
Scrutava il vialetto che portava giù, fino ai tornanti che vedeva in fondo, deserti.
Petra stava apparecchiando la tavola, come ogni domenica la tovaglia di fiandra bianca, le porcellane più belle e le posate d’argento: sapeva quanto Ernesto ci teneva al giorno di festa e lei lo assecondava, perché quella famiglia, che si sarebbe radunata attorno a quel tavolo, era anche la sua famiglia.
Ernesto la chiamò e le fece notare un uccellino, ancora implume, caduto a terra dal nido, immobile sul selciato.
Ernesto lo guardava con occhio lucido, mentre un brivido lo scuoteva forte, attanagliato in una morsa che pareva gli bloccasse il respiro.
Petra raccolse il piccolo cadaverino per gettarlo nella spazzatura, battendo una pacca sulla spalla incurvata di Ernesto che pareva, in quei momenti, essersi ritirato ancora di più.
Rientrò in cucina ed accese il televisore.
“Tragico incidente stanotte sulla Statale 18, hanno perso la vita quattro ragazzi, di età compresa tra i diciotto e i ventiquattro anni…..”La voce del cronista divenne un sussurro alle orecchie di Ernesto, mentre sciorinava i nomi di quei ragazzi.
Pensò all’uccellino morto e si accasciò incosciente sulla sedia.
A Petra una lacrima silenziosa scese sulla guancia rubiconda.
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