Il suo nome sioux era Gatto Randagio.
Non aveva casa, abitava il mondo intero, senza pareti e senza confini.
Era uno spirito libero e quando alzava lo sguardo e osservava il cielo, era felice dell’azzurro che gli riempiva gli occhi.
Quando le ore si facevano troppo pesanti, gli bastava alzare gli occhi verso l’alto e si aprivano i cancelli del suo giardino segreto, dove trovava balsami dolci a lenire i dolori che gli piegavano le spalle.
Erano parole che scorrevano lievi, a sciogliere la tensione e fargli ritrovare i denti in mezzo al sorriso; i lunghi silenzi si scioglievano, come la neve al sole d’aprile.
Ogni tanto cercava la luna e la trovava, brillante ad illuminare il nero della notte, con tante stelle a farle da damigelle; ogni cielo diverso, nel suo eterno peregrinare, ma lei era sempre lassù, a volte ben pasciuta, a volte sottile ma sempre desiderabile per Gatto Randagio.
Una sera accadde, mentre cavalcava lentamente e svogliato verso casa.
Alzò gli occhi, le nubi velavano il chiarore come mai prima gli era riuscito di vedere.
“Strano” disse, parlando a se stesso ed al suo cavallo di uno strano colore tendente al violetto “non sembra nemmeno più il mio cielo, ora sembra davvero un giardino. Vedi, Cavallo? Quella nuvola là sembra un albero di castagno, l’altra a destra una quercia impetuosa. E’ un cielo di verde, stasera”.
La sua voce accompagnava il gorgoglio del sentiero che costeggiava il fiume, le foglie secche sotto gli zoccoli sovrastavano il frinire dei grilli e uno sciame di lucciole illuminava debolmente la strada.
“Guarda, Cavallo! Guarda quella nube laggiù, sembra una felce chinata a proteggere un fungo ed a stillare di rugiada la madre terra. Vorrei allungare una mano e toccarla, mi farebbe felice…”
*****
Il suo nome sioux era Felce Mirtillo.
Non aveva casa, abitava il mondo intero, senza pareti e senza confini.
Le avevano dato quel nome perché era fresca come una felce di giugno al mattino ed aveva una minuscola voglia del colore e della forma di un mirtillo, proprio in mezzo alla fronte.
Era strana, preferiva restare in disparte ad osservare quanto avveniva attorno a lei.
Non era felice se non quando alzava gli occhi al cielo e sostituiva il verde abbacinante della prateria con l’azzurro intenso che, lentamente, la riempiva di pace e di tranquillità.
Erano i suoi momenti felici e spesso pensava a quanto sarebbe stato bello essere là, su una nube, a guardare in giù quello che accadeva.
La vecchia Ruga di Carta conosceva tutti i suoi desideri; un giorno sentì che Manitù la stava chiamando a sé, convocò Felce Mirtillo nel suo tepee e le diede un piccolo otre di pelle di bufalo.
“Qui dentro, piccola Felce, c’è un potente veleno che uccide gli uomini, ma non le anime. Devi berla, al prossimo plenilunio. Addio, piccola mia, il mio spirito sta per andare”
Felce Mirtillo pianse molte lacrime quanto Manitù rubò l’ultimo alito di fiato alla vecchia Ruga di Carta.
La sera prestabilita arrivò: lei si preparò con cura, si spalmò il corpo con unguenti profumati, intrecciò i lunghi capelli di fiori di campo e ingollò la pozione.
Si ritrovò in alto, dove sempre aveva desiderato stare, era leggera e fluida, danzava nello scuro e ammiccava con le stelle.
Era felice, era libera.
Guardò in giù, vide un cavaliere avanzare lentamente su un sentiero.
Si fece cirro ed allungò una mano, lo carezzò lievemente sulla testa.
Lui prese la mano di nuvola e sorrise, mentre diventava vapore e saliva.
“Chi sei?”
“Ero Felce Mirtillo. Ho udito i tuoi pensieri ed ora sono Falce di Luna. Andiamo, abbiamo da compiere un lungo viaggio”.