Ti parlo
della mia lentezza
viva,
delle ombre
che inventano i segnalibri
sulle scrivanie delle segretarie,
ti parlo
del semplice sapore acre
dei limoni nel tuo frigo,
e poi delle mie parole
che sono aria
che ti accarezza,
che sfiora la rotondità
sola del tuo viso,
del tuo seno
quando dai cupoloni
il sole fa capolino,
e se ti ho amata,
se le mie parole
mi hanno:
imitato
assemblato
plasmato,
se hanno attraversato
la fronte liscia
del tramonto nei tuoi occhi,
e se ti parlo, ancora,
piano,
se mi nutro della vista del grano
del patetico ulivo alla mia finestra,
questo vuol dire
che ho ancora fame
dei tuoi capelli vorticosi
del tuo efficace sorriso
scavato nella mia roccia violata,
vuol dire che le nuvole
nei deserti
danzano per i più distratti
e per chi fatica a trovarle,
e che il tuo ventre radioso
non trova pace
se non nel contatto
con le mie labbra
nella notte.
Ti parlo
delle mie passeggiate
dentro te,
delle mie orme solitarie
nella parte più nascosta
della tua essenza.
Ti parlo
senza timore,
ti parlo
senza fine,
come nei concerti
come nei banchi vuoti a scuola
quando i sogni
non faticano a volare.