Perso nella più inutile attesa
penso alle tue labbra,
al candido sapore del bucato
prima di strapparlo via
per lasciare spazio, fertile,
alla passione,
spaesato come nei cortili
dell'era cortigiana
e più ancora, oltre
le felici vie dei pascoli
nelle mattine di maggio
e poi di giugno
prima del caldo torrido
e della litania delle onde
al crepuscolo,
qui mi ritrovo.
Ebbro e sereno d'aver vinto
lo schermo invadente della gelosia
che è facile sostegno
dell'insofferenza da insicurezza
nei periodi della post amicizia,
e non posso staccarmi
dall'immagine serena del tuo viso,
ora confuso,
mentre mi accarezzi la viva pelle
oscurata dalla notte
e dalla follia dei miraggi
come in un deserto insulso e infantile.
Provo pena per la felicità sprecata
e per in brani in vinile a morire
accatastati tra i classici
e i volumi dell'era finto moderna,
tra la polvere tipica dei circoli ricreativi
da dopolavoro ferroviario.
E non ho scelta né ragione
di impazzire
né di negare le notti alcoliche
e la rabbia bigotta
e la gioia nel vedere le commesse sorridere.
Ebbro della pietra spartana sopra i tuoi seni
e dell'ombra confusa delle coperte
a volteggiare del fuoco della passione,
ebbro nelle spente ora a dialogare
con sacerdoti
e avvocati ingegneri e professori
che non sanno l'italiano
e amano cancellare il proprio nome
in favore di un comune richiamo.
Ebbro sono stato
nella mia totale ambiguità
di seguire la vita
e osservarla annusarla persuaderla
per non farla volare
e tenerla raggiungibile
in una dose di ignoranza.