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 LA LUNA NEGLI OCCHI (versione rimasterizzata)

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Gaetano Benedetto
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Gaetano Benedetto


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MessaggioTitolo: LA LUNA NEGLI OCCHI (versione rimasterizzata)   LA LUNA NEGLI OCCHI (versione rimasterizzata) Icon_minitime1/6/2009, 15:49

Di sera, negli aeroporti, si respira una calma frenesia.
I movimenti sembrano lenti, e i ritardi dei voli, scontati.
Uomini in cravatta si aggirano famelici nella sala d’imbarco: mostrano fedeli il Corriere della Sera, ormai con notizie superate, e nascondono con falsa vergogna, la Gazzetta dello Sport.
La scena è illuminata eccessivamente da freddi neon, e l’ampia vetrata che circonda la sala, nasconde con fatica le luci carnevalesche delle varie piste d’atterraggio.
I bar vendono a prezzi vergognosi patatine e gelati fuori moda. Vistosi negozi vip, di vino e abbigliamento, stanno ordinati ai lati dei metal detector; espliciti inviti a romantiche serate a lume di candela, e pomeriggi da passare in divani viziati, foderano una timida vetrina.
Le tv a schermo piatto trasmettono le solite pubblicità con eccitata costanza; si pubblicizza il territorio in modo esagerato e isterico.
Scrivo in questo spazio asettico e qualcuno mi osserva; la penna scorre veloce su questa pagina bianca.
Le cuffie suonano improbabili melodie, e le poltrone sono davvero scomode.
Sono le 18.05. Il volo ritarda.

Voglio mettere in chiaro una cosa: non era una notte buia e tempestosa; l’avrei notato, altrimenti.
Era piuttosto una di quelle sere di fine autunno, stanche e indecise. La macchina scorreva con apparente disinvoltura tra quelle strade squadrate e dimenticate, e illuminate malinconicamente.
Ancora non si vedevano le luci colorate e gli inguardabili babbi natale appesi ai balconi. Neanche gli alberi luccicanti dietro le finestre condivano la scena. Bisognava accontentarsi dei discorsi imprecisi e interrotti dalla musica alla radio.
Tra quei marciapiedi polverosi che scorrevano veloce, tornavano alla mente, con facilità impressionante, le luci ondeggianti sull’acqua, le barche ormeggiate in modo disordinato e l’odore pungente del mare d’inverno. Un sorriso cadeva, poi, su quell’immagine ingannevole di una città che in verità era cattiva e nevrotica. E anche molto egocentrica.
Avrei presto raggiunto il molo. Due o trecento metri ancora, e poi tutto mi avrebbe inondato con rinnovata goduria, in quella splendida realtà.


E’ sera. Il volo è turbolento; fuori i paesi sembrano eterne colate di lava a macchie di leopardo.
Il cielo è sgombro di nuvole; guado la luna negli occhi.
Voci indecise arrivano e si accavallano alla musica soul suonata dal mio I-pod; tutto è calmo e rilassato.
E non so che ora sia e sinceramente nonmenefreganiente.
Il libro di Camilleri mi aspetta.
Parecchie centinaia di metri ci separano dal suolo.
E’ un martedì distratto. Il tempo è rapido, e silenzioso.

Il cielo aveva l’aria di un crine distratto, e abitato da piccole lampade a petrolio.
I fari della macchina tracciavano ferite sull’asfalto, evidenziandone i segni del tempo.
In lontananza il Palazzo di Città era illuminato eccessivamente, e pronte guardie in divisa vigilavano sui passanti.
Un momento preciso per i ricordi, e per certe scelte dettate dall’istinto.
Era un bel lunedì sera, tutto sembrava svolgersi secondo copione.
Rossella mi guardava con la sua finta espressione ansiosa, poi tornava a sorridere e a disegnare con l’indice strane figure sul vetro, che la separava dal mondo, fuori.
Guidavo piano. Come sempre. Come ovunque.


I vicoli sono bui e stretti. Non c’è gente. Abbiamo da poco cenato al Montino. Serata divertente e meravigliosa. Sorprendente.
Giovanna cammina spedita tra le strade della sua città, io la seguo divertito. Parliamo di tante cose.
Ci divertono le differenze che saltano fuori mentre discutiamo.
Poi si ferma, Giovanna, e mi guarda. E sorride.
“Alza lo sguardo” mi dice. Io lo faccio.
Lunghi secondi mi separano dal resto della vita.
Un pezzo della Torre fa capolino fra i tetti. Sono sorpreso e stupito; ho gli occhi del bambino che non si aspetta un così bel regalo.
Proseguiamo.
Le bancarelle dei venditori ambulanti di ricordi, sono chiuse. La scena è calma e terribilmente bella.
Misteriose ombre si affacciano in questa limpida notte.
Il prato è luccicante e il marmo grigissimo. Fatico a respirare. Mi tornano in mente vecchie canzoni soul.
Voglio bene a questa ragazza.
E’ una di quelle notti da incollare come adesivo sul frigo.

Ero distratto dai semafori lampeggianti, e dalla gente seria e a volte sorridente ferma per la strada.
Poi tornavo a parlare, e a cercare con lo sguardo un pezzo di terra dove posteggiare l’auto.
Passi carrabile si susseguivano infiniti. Poi divieti e cassonetti colorati della spazzatura.
Il resto delle macchine erano parcheggiate male e le vetrine erano gelosamente spente.


E come la barca si lascia trasportare dalle onde, se lo crede, così ogni viaggio ci conduce in luoghi inaspettati, e molte volte incredibili.
Questa volta, lontano da casa, siedo in una biblioteca universitaria di fianco a due studenti vistosamente giapponesi.
Io guardo loro, loro scrutano me.
Occhi a mandorla, capelli neri come la pece, e stesso modo ticchettante e leggero di parlare.
Poi tacciono, e questo mercoledì mattina diventa come certe lavagne pulite, su cui segnare strane e misteriose formule magiche.
Il silenzio è irreale, e fortunatamente rotto a intermittenza, dal rumore degli oggetti. Ti accorgi senza alzare lo sguardo se una penna cade per terra o se meglio, è aperto un astuccio. E poi il click dei notebook, e il costante e sacro suono sussurrato dei fogli sfogliati; è tutto rilassante e scontato.
Vorrei chiedere a questo simpatico giapponese, che mi sta di fronte, dove ha comprato queste sue fantastiche scarpe blu e rosse; ricordano i tipici cartone animati del Sol Levante.
Alle mie spalle due enormi porte con il simpatico maniglione antipanico, ci separano da un ordinato e immediato parcheggio per bici; mi ricorda certi telefilm americani che seguivo anni fa.
La stanza è illuminata a dovere dalla luce del sole; le ampie vetrate raccontano di giardini e panchine di legno, e di seri edifici in lontananza.
I viali reclamano l’autunno con tutte quelle foglie morte.
I due ragazzi giapponesi (sono sicuramente una coppia, si sorridono e si amano … ah l’Amore giapponese!) tirano spesso su col naso; si alternano nel farlo, in modo ordinato.
Come si dice in giapponese: “Vuoi un fazzolettino?”
Guardo il resto dei ragazzi: cerco di immaginare come sono fuori da queste mura.
Sole le 12.33, la mensa ci aspetta.

Parcheggiammo in maniera fortunosa e cercando di proteggerci dal vento, ci incamminammo verso il fortino.
Bari, nelle sere d’inverno, è di un’autorevole rigidità. La gente tende a vestirsi sempre tutta uguale (ma questo non accade solo quando le sere si fanno fredde, vi assicuro) e cammina imitandosi. La scena è molto spesso buffa e triste. E appariscente, e scontata.
Il fortino è forse il luogo più bello, il più romantico e ingannevole.
“Guarda, quelle luci dietro le palme, danzano e ricordano stelle filanti” disse Rossella portando la mano all’altezza del viso.
Scendemmo piano verso il mare; l’odore non era pungente e la temperatura bassa.
Una scenografia perfetta per un brano di Paco de Lucia.


La nebbia ha una presenza spettrale; gioca a nascondino con i ricordi.
Ogni bici sembra colorata d’arancio e l’Arno è tanto alto da far spavento.
Le cuffie suonano musica elettronica; i prati sono verdi e brillanti, e fa freddo.
Misteriosi e stretti vicoli m’invitano a percorrerli, lo faccio piano.
Giovani e seducenti ragazze stanno ferme alla fermata dell’autobus, ascoltano musica.
In lontananza il Bazeel con il suo vino meravigliosamente buono e la finta pizza dura e fredda.
Ai piedi di una statua in omaggio del sovrappeso Garibaldi, una coppia discute felice del futuro; è piacevole starli a osservare. Poi vanno via e non mi resta che guardare due muratori al lavoro.
Frenetico mi precipito, poi, in un mercatino di roba esotica; c’è di tutto.
Mille sono i colori e c’è poca gente: guardano distratti e vanno altrove. Poi esco e cammino, cammino e ancora cammino. Corro a sedermi su una panchina che ha avuto modo di ospitarmi in passato.
Per un po’ di vicoli un uomo, credo indiano, mi ha seguito. Sono stato al suo gioco, poi l’ho guardato ormai annoiato e lui è andato via per un’altra strada. Non l’ho più rivisto.
Sono circondato ora dal solito istituto bancario, e da lunghe file di negozi vuoti; i due lati della strada sono uniti da luci natalizie, che si dice abbiano rischiato di non esserci quest’anno: colpa del denaro e della follia umana.
La gente, in questo vivo pomeriggio, mi guarda e prosegue veloce.
Io osservo e annoto, imparo. Sorrido.
Un uomo credo ubriaco mi si avvicina e biascica delle parole strane che non capisco, poi prosegue verso altra gente e in pochi istanti lo perdo tra la folla; intanto signore in bici, vestite con abiti vistosamente costosi, corrono via a velocità divertita.

Con i polpastrelli cercavo la natura liscia della pelle di Rossella; la sfioravo, percorrevo piano la sua corazza chiara.
Il silenzio accompagnava le nostre solitudini.
Il mare e le lunghe fila di case alla nostra destra, specchiavano la nostra incurabile malinconia.
Tutto era il ricordo luminoso di qualcosa: le ombre che ci inseguivano invano, le auto, i venditori ambulati di birra e panini d’incerto igiene. I gabbiani che sanno morire piano, e gli scogli sporchi e le alghe rinsecchite.
Le luci che avevano aperto la serata, iniziavano a impallidire la scena, e noi con i nostri spostamenti lenti alitavamo una calma follia.
L’angoscia, che mordeva le nostre gole, era il chiaro presagio di un amore imbottigliato da due caratteri fin troppo feroci, feriti. Increduli per tanta bellezza scoppiata e poi appassita, con forza ugualmente accecante.
Le panchine che ci reggevano mostravano la loro fredda e distaccata indifferenza.


Un uomo aspetta sua moglie, e lei arriva. Sono seduto a questa panchina sporca e in pietra.
Ho camminato tanto, per corti minuti.
Non sono abituato alla nebbia, mi mette malinconia.
Lunghe file di motorini stanno parcheggiati, pazienti, ai piedi di questa ricca università.
Una teatrale donna attraversa la scena; cammina veloce in modo elegante.
Attendo Giovanna.
La vedo, ora. Viene verso di me e sorride.
Il resto del pomeriggio avrebbe parlato di cappuccio con panna e giri in moto per la città.
E poi via veloci all’aeroporto, col crepuscolo in lontananza.

In questo momento di convinta confusione, in fila al gate, e mentre tutti i voli (come una partita a scacchi) sono cancellati, io penso a due frasi fatte:
- la nebbia la puoi tagliare a fette;
- non si vede ad un palmo dal naso.
Gente impazzita e confusa va a destra e a manca in cerca di notizie.
L’aria è elettrizzata.
Io resto seduto sul pavimento polveroso e sporco con un sorriso complice e un po’ malato.
Seimila persone cambieranno i loro programmi, per le prossime ore, in modo violento; io sono uno di loro.
Un rapido giro di chiamate mi sta rassicurando circa gli orari dei treni. Non mio resta, quindi, che andare alla stazione.
La serata, fuori, è fredda e appiccicosa.
Il resto è un misto di treni presi al volo (ironia della sorte) e coincidenze temute. Il tutto in compagnia di cinque fedeli compagni di viaggio.

Iniziava a infastidirmi quel colpevole silenzio, e fu così che per placare quell’odio sul nascere decisi di rimettermi in viaggio; nuove strade e odori, colori espressioni. E ancora tuoni lampi e balconi con nuovi addobbi.
La strada. La sentivo forte.
La notte si annunciava ancora lunga e pensierosa.
Dovevo lasciare Bari.


Ora, in questa timida alba, e a pochi chilometri dalla mia stazione, fuori piove e l’acqua striscia gli sporchi finestrini.
Le case, fuori, scorrono veloci, e le luci natalizie iniziano a traboccare sugli abbondanti balconi di questo distratto e condannato meridione.
Sono stanco, il viaggio è stato avventuroso e divertente; ho dormito pochissimo.
Tutto sembrava attirare la mia attenzione, come sempre.
L’atmosfera nel treno è cupa e imprecisa.
Ognuno per la sua strada, alla ricerca di qualcosa.
Infami sono volati via i pomeriggi, le sere e le mattine.
E attendo il sole con pazienza.
Ad aspettarmi, immobili, le lunghe e squadrate strade di Bari, dove tutto pare alcune volte, infinito.
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Emma Bricola
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Emma Bricola


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MessaggioTitolo: Re: LA LUNA NEGLI OCCHI (versione rimasterizzata)   LA LUNA NEGLI OCCHI (versione rimasterizzata) Icon_minitime1/6/2009, 16:37

Mi svegliai una notte
non riuscivo a dormire
andai alla finestra
e vidi la luna brillare

Brian Llsaj
IV A
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Daniela Micheli
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Daniela Micheli


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MessaggioTitolo: Re: LA LUNA NEGLI OCCHI (versione rimasterizzata)   LA LUNA NEGLI OCCHI (versione rimasterizzata) Icon_minitime21/7/2009, 11:02

Dovrei riprendere la prima per trovare le rimasterizzazioni ma non mi va, leggo questa e l'apprezzo, ad iniziare dal titolo, per concludere nella tua pagina che è di quelle prose con pennellate di poesia che molto apprezzo.
Ciao, Gae
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