SAMARCANDA - NUCCIO PEPE

Andare via, ritornare.
Il flusso perenne della scelta gli si ripresentava ancora una volta. Era stato così alcuni anni prima quando la sua inquietudine d’animo lo aveva spinto a lasciare Samarcanda, la mitica città dei sogni, per completare quella che si delineava come una scelta di libertà.
Libertà dai vincoli ancestrali di una famiglia che, seppur amata, lo soffocava con le sue tradizioni, libertà da una società che sentiva ormai ostile e non riusciva a capire più, libertà da un matrimonio che era stato “semplicemente” imposto così come prevedevano le regole del villaggio.
I sobbalzi del vecchio camion di fabbricazione sovietica non lo infastidivano e neanche si accorgeva della nuvola di polvere giallastra che accompagnava il convoglio, quasi a camuffarlo con il desolante paesaggio circostante, si sistemò meglio la sciarpa che gli copriva il volto.
Che avrebbe fatto il padre? E il passato sarebbe tornato del tutto oppure sarebbe stato come un vago ricordo ondivago nella corrente dei pensieri?
Rivide in un lampo il vecchio baule che gli aveva cambiato la vita, il ritrovamento casuale fra gli anfratti dove si recava da ragazzo a cacciare lucertole e dove parava le trappole che procuravano saltuariamente la scarna carne di animali ancor più affamati  della sua numerosa famiglia.
Un sorriso gli illuminò il volto quando rivide il volto, dapprima preoccupato e subito dopo complice, di sua madre che lo interrogava su quel tesoro improvvisamente comparso in casa loro. Il suo primo impulso era stato di andare via, scappare  trascinando quel baule che presagiva avrebbe dato una svolta alla sua vita.
Sudando e passeggiando nervosamente aveva fatto la sua scelta. Nottetempo caricò, aiutato dalla madre che stava di vedetta, il prezioso carico sull’asino di famiglia e lo andò a nascondere dentro una piccola grotta che aveva scavato dapprima per i suoi giochi e poi ampliato per incontrare Ingra la ragazza che con i suoi occhioni tristi gli provocava un sobbalzo al cuore ogni volta che lo sfiorava ma che sapeva destinata a suo cugino Sacha.
Nei mesi successivi aveva iniziato a disinteressarsi di tutto ciò che gli succedeva intorno, aveva accettato supinamente il matrimonio e i riti che lo accompagnavano, non andava più a caccia, o meglio diceva di andare  ma tornava sempre a mani vuote. L’unico interesse lo mostrava nel frequentare la scuola religiosa del villaggio vicino dove aveva trovato un vecchio che sbrigava le faccende umili ma avendo fatto dei viaggi su cui regnava il massimo mistero lo affascinava con i suoi racconti ed inoltre gli insegnava a leggere in una lingua a lui dapprima sconosciuta.
I rapporti con il padre erano inesistenti, ricordava ancora le sferzate con la striscia di cuoio e le urla per ricordargli i doveri coniugali e familiari.
Dopo anni l’unica fonte di comunicazione era stato il telegramma che gli comunicava la morte dell’adorata madre.
Ancora un sobbalzo del camion e un foglio spiegazzato ed unto gli si adagiò ai piedi, trasalì quasi avesse visto una mappa che portava a quel tesoro da lui celato agli altri nella sua vita precedente. Riconobbe una pagina dell’Odissea di Omero, una pagina strappata chissà se da un uomo o dal vento o da un animale randagio che aveva scoperto il rifugio segreto dove aveva sistemato i volumi contenuti nel vecchio baule, alzando gli occhi riconobbe i fianchi della sua collina preferita.
Che avrebbe fatto il padre? Non lo sapeva, ma sapeva con certezza cosa avrebbe fatto lui, conscio della ricchezza che gli era venuta dalla difficile, sacrificata lettura.
Lo avrebbe abbracciato.