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 ALLA RICERCA DEL DOLORE

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Gaetano Benedetto
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Gaetano Benedetto


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MessaggioTitolo: ALLA RICERCA DEL DOLORE   ALLA RICERCA DEL DOLORE Icon_minitime10/10/2009, 21:58

ALLA RICERCA DEL DOLORE

“E cos’è cambiato?”
“E’ cambiato che non c’è più Matteo”
Lasciai le mie parole sospese, finite, immerse in un vuoto osceno senza scampo.
Le lasciai in cura alla notte che stava arrivando, e alla nostra insonnia.
Cecilia allora mi guardò, e lo fece in modo strano. Forse mi scoprì nuovo.
Forse notò i miei primi capelli bianchi, poi col dito accarezzò la mia fronte come fanno i piedi di notte, nello squallore di Piazza Umberto.
Andò via.
Io rimasi lì, in quel corridoio bianco, seduto su quelle panche stanche e scomode.
Io rimasi lì, sconfitto e immobile in quel territorio dall’apparenza asettica.
Non so per quanto tempo fissai il tappeto in linoleum sotto i miei piedi.
Furono minuti vuoti, perché non pensai a niente, neanche a Cecilia, né a Matteo avvolto nell’incerata scura.
Poi andai verso la finestra. L’aria era pregna di un profumo limpido e leggero, forse bergamotto o qualcosa che non seppi decifrare.
In quei minuti non sapevo fare niente.

Quando il telefono squillò io rapinavo una pasticceria, nei sogni.
“ Cecilia, che c’è? hai visto l’ora?”
“Matteo ha avuto un incidente”
“Come Matteo?”
“Stava facendo …un sorpasso …e non ci posso credere Daniele, come faremo ora?”
“Adesso dov’è? Come sta?”
“Non lo so, mi ha chiamato sua madre, mi ha detto che l’hanno portato al Policlinico e che l’avrebbero operato a breve”
“Tu dove sei?”
“A casa, passa a prendermi, ho paura …non voglio andarci sola”
“Arrivo”


Avevo spento il cellulare, quella notte aveva squillato e portato cattive notizie, e poteva bastare.
Ero distratto e ovattato, e non avevo notato la folla che sostava dall’altra parte della porta che sigillava me e tutto il reparto di rianimazione.
Conoscevo quelle voci, e quei visi che si sarebbero affrettati a mostrare il dolore. Anche in modo innaturale.
Qualcuno piangeva già.
Poi vidi un’infermiera dall’aria trascurata dirigersi verso la porta, e aprila.
Fuori la notte iniziava a schiarire e a scacciare i fantasmi nelle loro tane.
Rimasi immobile con lo sguardo diretto fuori, con gli occhi che non guardavano quei balconi, quegl’alberi che sfiorivano. Cercai di parlare il meno possibile, e di soffrire un po’.
Cercai di scovare quel dolore che mi avrebbe invaso e investito. E che non provavo.

“Non è colpa nostra, o almeno non tua, non iniziare a pensarlo”
“Non è giusto che c’andiamo insieme”
“Invece sì, noi siamo suoi amici”
“Io ero suo amico, e tu, forse, qualcosa di più”
Non ricordo quello che ci dicemmo dopo, invece quella mano, la sua, che si posò sulla mia mentre guidavo non riesco a cancellarla.
Pensai a quanto sporco ero. E a quello che avevo perso.
Appena entrati nel reparto di rianimazione sua madre ci disse, tra le lacrime, che non ce l’aveva fatta.
Che avevano tentato.
Sembrava giustificarsi nella sua disperazione, con noi. Ma lei non sapeva.
Lei non immaginava che suo figlio era morto molto prima, e per causa nostra.


Passai la mattinata in giro, stordito e incredulo.
Presi la macchina e andai per certe strade di campagna che amavo frequentare d’autunno.
Vagabondavo piano e respiravo a pieni polmoni l’odore dell’erba e della terra appena arata.
Le olive erano ormai mature e il loro verde tagliava il colorito spento e d’argento delle foglie.
La radio suonava un vecchio album dei Pink Floyd.
Non pensavo a Matteo che per me era ancora vivo, non pensavo alla colpa che provavo, no, mi ostinavo a cercare il mio dolore inespresso tra le pietre bianche dei muretti a secco lungo la strada, in quel cielo azzurro e pulito.
Cercavo il mio dolore nei ricordi dell’infanzia, in quei discorsi che ora mi apparivano premonitori.
Ma niente, era tutto malinconia e ulivi e mandorli spogli.
Poi mi fermai all’altezza di un trullo. Era ormai diroccato.
Scesi dalla macchina.
Conoscevo quel posto.
Non pensai ai sassolini che entravano nelle scarpe, né alla polvere che segnava i pantaloni di cotone.
Ero solo, e per la prima volta in vita mia ebbi la netta sensazione si assaporare la solitudine, quella che secca le narici e attutisce gli odori.
La solitudine dei fondo scala o delle birrerie vuote in una mattina d’estate.
E fu così che iniziai a piangere. Solo. Come un bambino.
Dopo il pianto si calmò, e provai un freddo eterno mentre la pelle pian piano iniziava a gelarsi.
Guardai il sole e la natura arida che mi circondava ed ebbi pietà di me.
Ebbi la perfetta sensazione della mia sconfitta, del mio errore senza ritorno.

“Cos’è successo Cecilia?”
Lei mi guardò interdetta. Le sue lacrime avevano, forse, l’esclusiva del dolore quella notte.
“Perché proprio Matteo e non noi cazzo!”
La sua voce era roche e decisa. Precisa.
“Perché non sento niente?”
Guardai le sue mani, la sua pelle rosea e gli occhi che annegavano nelle lacrime.
“E cos’è cambiato?”
“E’ cambiato che non c’è più Matteo”


Ritornai a casa piano.
Erano vuote quelle mura, più del solito. O almeno così le sentii.
Osservai svogliato le colonne di libri che sostavano per terra ai lati del divano.
Non mi suscitavano piacere, e mi sorprese. Mi avvicinai a quei titoli e li lessi uno per volta, piano, ma niente, non provavo alcun interessare.
Iniziavo a punirmi?
Cominciavo forse a precipitare in quell’incosciente sentore di distruzione che provavo già dai tempi dell’elementari?
Quella era la mia strada, o almeno così pensai in quel momento.

Dalla finestra filtra un barlume di luce.
Cecilia mi baciava il collo.
Sento forte l’odore del cotone delle lenzuola e della pelle chiara di lei.
Ascolto le sue mani sul mio corpo, sul mio petto lanoso.
“sarà sbagliato?”
“non ora Daniele, non ora”
Allora decido di abbandonarmi alla sua carne liscia e al mio piacere, alle nostre voci incerte e al suono dei motorini che provengono dall’esterno.
Poi iniziamo a far l’amore e forse di più.
Mi vergogno un po’, ora, mentre ci rivestiamo. E non per la colpa d’aver tradito Matteo ma per la piacevole nudità con cui mi mostro a Cecilia.
Mi piace osservarla mentre indossa piano gli slip, e quella luce che illuminava la sua schiena nuda e i suoi nei piccoli e decisi, e i capelli rame che le scendono leggeri sulle spalle rompono il fiato per tanta bellezza.


Forse quella sera Matteo ci vide uscire insieme da casa mia, e che realizzò tutto.
Nella sua testa si ricomposero con la giusta luce le nostre comuni assenze, i nostri sguardi a nascondersi.
La nostra nuova affinità, mia e di lei, e che lui giudicava meravigliosa e piacevole.