III – La fine.
Lasciati i nostri lidi l’argentino
e pure il giocatore di Belgrado,
è assai difficoltoso quel destino
che vede attraversar un fiero guado
il gruppo, comandato da un cretino
che d’esser condottiero non è in grado.
Arrivano li nuovi cortigiani;
e son da metter faccia nelle mani.
Cimento ininvidiato sempre tocca
a chi rimpiazza i grandi ripudiati,
chè il dardo della critica sta in cocca
e sono gli invidiosi preparati,
tenendosi ben pronto nella bocca
il motto che li fa precipitati.
La gemma della lor ingrata impresa
è spesso ben peggiore dell’attesa.
La coppia che al comando vien assorta,
con Boscia nelle briglie di Lombardi,
è forse delle tutte la più storta.
Assai son rabbuiati i nostri sguardi,
pensando ad una squadra poco accorta,
esposta senza scudo ai fieri dardi
dell’avversar che, lieto, già progetta
di anni ed anni, cupa, la vendetta.
Lo spasmo dura il tempo dell’estate,
passata fra dolori e fra tormenti;
miriamo dell’altrui le gran trovate
e i nostri far sipari deficienti,
copiose, celestiali cavolate
e scelte di mercato inconsistenti.
Arriva di ‘fenomeni’ uno stuolo:
di tutti non sen salva niuno solo.
Il popol si ribella a tale affronto
e il Regno di disvuota del tesoro.
Riducesi del Sire il ricco conto,
provento dell’amore e dell’alloro:
in loco di Palazzo all’urlo pronto
s’aduna un miserando e mesto coro.
Il Re misura in or qual sia ‘l prezzo
dell’odio universale e del ribrezzo.
Non tarda la risposta alle domande
sul tono e sul valore dei soldati
che vestono la maglia che fu grande
e affrontano, non bene comandati,
la pugna nelle più modeste lande,
tornandone battuti e malmenati.
L’abisso disperato a Fabriano
ci lascia con la fronte sulla mano.
Il Duca non perdona il comandante
e, dopo buon rinforzo aver chiamato,
ricambia Boscia di sconfitte tante
facendolo di colpo pensionato.
Non prende a sostituto l’aiutante,
che pure nell’estate avea tentato,
ma vota per il primo dei cretini:
s’affida a quel rottame di Bianchini.
A mezzo dell’infausto campionato,
arriva per il popol il gran botto
del capitan di Francia che, irato,
trasvola per giocar in altro lotto.
Non essere tal rifiuto contrastato,
se non con timidissimo rimbrotto,
disvela della crisi il rio compendio:
l’esercito non prende lo stipendio.
E’ stolto chi rigetta ancor l’assunto
che sorte della Virtus è segnata
e, certo che d’abisso il fondo è giunto,
confida che rimonta è cominciata.
Inver ad ogni pugna manca un punto
e frana si sussegue a scivolata.
Esclusi in coppitalia ed eurolega,
da postagione Siena fuor ci sega.
Il Re offre a sue genti pur l’offesa
di dir esser altrui la colpa vieta
di simile disfatta e mesta resa;
negando di tener a stretta dieta
l’esercito, costretto a muta intesa,
sostiene aver puntato a grande meta.
Chiamato a dispiegar le tante rogne
ci rende un cumulare di menzogne.
Mirando ad un domani alquanto scuro,
il popol si domanda se lo scranno
alberga un Sire stupido e spergiuro,
capace sol d’astuzia e vile inganno.
Incredulo che peggio sia il futuro,
rispetto a tanto gramo ultimo anno,
attende silenzioso qualche segno
da scettro di monarca tanto indegno.
Ma mentre l’avversar celebra coppe
e solidi rinforzi trova pronti,
il nostro non accolla neppur toppe
a falle perigliose nei suoi conti;
chè tutte le sue ditte sono zoppe
e medita perfin varcare i monti.
Restiamo ad osservar, muti ed attòniti;
e arrivano dall’alto i primi mòniti.
Il saggio vede chiaro che s’affretta
la fine del Gran Regno a casse vuote,
pensando che son dita di Porretta
che posan sulle carte di chi puote
e occorre che alla tasca mano metta.
E mente sua di certo non ha ruote
se nel tentar rimedio, o meglio, abbozzo,
ricorda sol di Roma il maritozzo.
Il buco che nei conti s’è creato
il Duca trova modo di saldare
con metodo bizzarro e scriteriato:
la Virtus alla figlia fa comprare,
che ricca è sol di titolo stampato
da complice che sa falsificare.
‘Risana’ quella squadra che fu bella
fascicolo timbrato in Mascarella.
Annuncia il Re l’arrivo dei denari
e ingaggia come tecnico Scariolo,
un uomo che n’ha pochi come pari
e alcun pensa si possa prender volo.
Ma Sergio ed i suoi vice sono ignari
dell’essere lo schermo d’un mariuolo;
progettan per la Virtus buona cura,
intanto il cielo alquanto intorno oscura.
E tanto fu coperto il marcio tutto
che infin arriva fulmine fatale.
È come di famiglia un fiero lutto,
la bolla che il Potere lancia a strale
dell’essere la Virtus fuor di brutto,
con atto che in passato non ha eguale.
Fra i tanti, lassù scelgono quel nodo
che Sani generò con proprio lodo.
Color che fecer occhi da lombrico
or miran nelle pieghe con veleno;
sapendo di quei conti il grave intrico,
e l’esser minaccioso lo sloveno,
calpestan della Vu lo stemma antico,
ghignando a menomar città sul Reno.
Il dramma si consuma il quattro agosto:
la Virtus nel torneo non ha più posto.