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 CARTA CARBONE

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Gaetano Benedetto
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Gaetano Benedetto


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MessaggioTitolo: CARTA CARBONE   CARTA CARBONE Icon_minitime20/2/2010, 16:08

L’ODORE BREVE DEL NOSTRO VIAGGIO.

Forse era egoismo quel dolore che mi perseguitava, forse le luci di Bari che
erano inghiottite piano e andavano a morire nello specchietto
retrovisore, erano una finzione.
Forse il mare oltre il buio, alla nostra destra, non era così inquietante come
l’immaginavo.
Mi resi conto di essere in viaggio solo quando vidi le luci del casello
autostradale avvicinarsi, e rompere il buio.
Calò velocemente il silenzio dentro l’abitacolo, come un sipario o meglio ancora, come la quiete che precede un’esplosione.
Avrei voluto abbassare il finestrino e allungare la mano fuori e sentire il vento tra le dita, e il freddo. E creare ombre tra le luci a riflettersi sull’asfalto.
Decisi di accelerare e cedere alla velocità, ai fari che scrostavano il nero dalla
strada. Alla voglia di perdere lungo la strada il fardello dei ricordi che ci portavamo dietro.
Eravamo in autostrada da poco, eppure la monotonia ci aveva raggiunti, presi.
Braccati.
Fu allora che Marina prese a parlare. Fu un monologo lungo e attento. Atteso.
Intanto fuori scorrevano i cartelli, verdi e dal chilometraggio
che faticava a scendere.
Avevo la sensazione che qualcosa ci inseguisse, un’ombra, l’inquietudine delle
scelte sbagliate. Il ricordo di quei ragazzi che non sapevano, e forse mai
avrebbero saputo.
Tania seduta dietro, canticchiava. E quell’allegria attenuata, e per forza
colpevole mi infastidiva.
Pensavo a Francesca, ai suoi occhi, alle tazze capovolte e ai mestoli dentro
la mia cucina. Pensavo all’asfalto che ci inghiottiva, ai tanti discorsi che
facevamo, a quegli uomini che avevamo sognato di essere, e che le troppe paure
avevano sostituito con le copie dei nostri padri. Uomini che avevamo odiato.
Chissà se anche gli altri, guardandosi allo specchio, non si riconoscevano.
I fantasmi hanno forme strane, bizzarre e imprevedibili.
La notizia di Carlo e della sua malattia mi aveva sorpreso. Travolto. Mi aveva
tolto l’aria dai polmoni, e con l’aria l’illusione di una giovinezza
infinita.
Pensavo a Carlo, ora, e agli alberi che scodinzolano le foglie al cielo. Per
caso sfiorai la mano di Marina, ebbi l’impulso di trattenerla, quella mano.
Provai, anche, la voglia di dirle di tacere, di tagliare quel cordone che
ancora ci legava a quel passato. Volevo dirlo a Marina e a me, a Mauro e Tania
seduti dietro.
Intanto il vento soffiava forte e faceva sbandare la macchina. Quello stesso
vento che faceva muovere gli alberi, che così tradivano la loro natura immobile
e ingannatrice.
Tania mi toccò la spalla, chiese se potevamo fermarci al prossimo autogrill.
Dopo dieci chilometri ero fermo, e solo in macchina.
Ho sempre odiato l’atmosfera delle stazioni di sosta, e il loro gusto provvisorio.
Ero solo in macchina e pensavo a quei tre, dentro l’autogrill.
Immaginavo Mauro
appoggiato al bancone con lo sguardo fermo sulla macchina del caffè. Marina
nascosta tra i libri, con l’indice a sfiorare lo scheletro dello scaffale.
Immaginavo Tania, in bagno, col viso bagnato e riflesso nello specchio.
Immaginavo le goccioline su quello specchio, e la luce. Quell’aria sospesa e
silenziosa e rotta dallo scorrere dell’acqua nel lavandino.
Ero solo in macchina e pensavo alla solitudine di Carlo. Al suo letto, all’ossigeno che percorreva i tubi, e poi il naso, per andare a morire polmoni.
Pensavo al pavimento in linoleum nei corridoi di tutti gli ospedali del mondo.
Ero solo in macchina e mi sentivo protetto dai finestrini rigati dalla pioggia
e dal buio intorno. Accesi lo stereo, e quella musica, una melodia che
riconoscevo e forse era la colonna sonora di un film che avevo visto, qualche
anno prima, ruppe il silenzio. Lo frantumò con una violenza che mi sembrò
eccessiva e irreale.
Poi guardai le macchine scorrere alla mia sinistra e dopo i tir fermi nel
parcheggio. Pensai anche a mio zio, che non vedevo da tanto. E che era stato
camionista.
Poi uscii dalla macchina e da quella cappa di ricordi che mi toglievano il
respiro. Respirai. Mi resi conto solo allora di aver trattenuto il fiato per un
tempo che non seppi calcolare. Pioveva.
Il vento continuava a muovere gli alberi.
Vidi Mauro Tania e dopo Marina, uscire dall’autogrill. Attraversai piano i
metri che mi separavano da loro.
Ero completamente bagnato, e sorridevo.
Mi dissero che ero un incosciente, che forse volevo farmi ricoverare nello stesso ospedale di Carlo. Io annuii. Non sapevo se avevano ragione loro, o se semplicemente ero uno stupido che si andava travestendo da qualcosa di più buffo. A dirla tutta non riuscivo a formulare nessun pensiero in quel momento, ero bagnato e questo mi bastava. Ero bagnato e sveglio.
Tornammo in macchina, mancavano duecento chilometri a Bologna. Albeggiava.
Il cielo si andava colorando con dei colori che non ricordavo. Quelle
sfumature mi sembrarono nuove, eppure ero sicuro di averle già riviste.
Identiche. Precise a come le vedevo adesso.
Marina allungò la mano, poggiò il dito sul tasto source dello stereo. Nell’auto si
diffusero come profumo di caffè le note di Simply beautiful di Al Green. Nessuno protestò.
La sua voce impastata e calda e decisa mi fece pensare ad altre cose che non
riguardavano quel nostro viaggio. E questo mi calmò.
L’aria calda aveva asciugato i miei vestiti.
Mi sentivo bene, ed ero sorpreso. Eravamo diretti sul palco della morte, e
quella strana serenità m’infastidiva, così come il lungo monologo di Marina.
Gli alberi fuori, illuminati da quei colori pastello accesi nel cielo, sembravano come certi
coriandoli lanciati nelle domeniche di carnevale.
Nessuno parlava. Tutti correvano dietro i loro pensieri, e cercavano di
acciuffarli nella tana buia dei dubbi.

LA PARENTESI DEL LORO VIAGGIO. (Il monologo di lei)

Una sera Carlo venne sotto casa, scese dalla macchina, e citofonò. Disse di
mettere le mie cose in una valigia, di sbrigarmi. Disse anche ti portare un
cappotto, la sciarpa, perché stavamo andando verso nord.
Io ero libera in quel periodo, ero da poco laureata e non sapevo cosa farne,
realmente, di me. Così accettai, e lo feci con quella leggerezza che lui mi
regalava. E imponeva.
Come sapete tutti, da quel viaggio, Carlo tornò cambiato. Si perse nei vicoli
di quei posti troppo differenti dai nostri. Quel che tornò indietro fu un uomo
inclinato verso l’oblio.
Appena tornato a Bari, abbandonò l’università. Gli mancavano quattro esami e
sarebbe diventato architetto. Si trasferì a Bologna.
A Bologna, dove smise completamente di essere lui.
Quel giorno Carlo guidò per ventiquattrore di fila. Ricordo poco del viaggio
perché dormii per molte ore; lui mi svegliò in Svizzera, voleva che vedessi a
tutti i costi, le Alpi innevate. Poi mi riaddormentai subito. Dormii per molte
ore. La musica a basso volume, il vento, il suono delle gomme sull’asfalto. Il
rumore della pioggia sulla carrozzeria della macchina. Mi nutrivo di quel sonno rotto da
tutte quelle cose. E quando non dormivo, facevo finta. Mi piaceva sentire il
respiro di Carlo mentre avevo gli occhi chiusi.
In quegl’attimi gustavo il dolce sapore dei sogni che avevo
fatto durante quel sonno scomodo, mescolati alla fragrante bellezza ruvida della realtà.
Volevo che quel viaggio in macchina non finisse mai. Ci speravo davvero, forse stupidamente.
La prima cosa che notai della Germania furono quegl’alberi che puntavano i
loro rami al cielo. Sembravano volerlo ingabbiare con quella fitta trama di
rami rametti e foglie a cadere.
Era inverno. L’aria era fredda e decisa, e le strade erano libere da quell’ atmosfera provvisoria
che si respira nei nostri paesi. Sembravano avere idea di dove
condurci, quelle lingue d’asfalto. Parevano essere il trampolino di lancio
verso qualcosa di unico e improvviso.
Rimasi a osservare quelle case che scorrevano dietro il finestrino, e poi i
cartelli stradali, le vetrine dei negozi. E i cartelloni pubblicitari, e tutte
quelle scritte che non sembravano avere un senso.
Stavamo costeggiando il Reno. Guardavo Carlo, e quel mondo nuovo.
Aveva un sorriso che non seppi decifrare in quel momento, ma che poi ho capito
essere la conseguenza di troppo emozioni mescolate insieme, di angoscia e coraggio, di amore e depressione.
Le paure ti seguono, braccano. E non ci si può disintossicare dai fantasmi, se
quelli ci abitano e hanno radicato le loro motivazioni nella nostra
coscienza.
Parlò poco Carlo in quel viaggio, e anch’io non avevo tanta voglia di
comunicare. Mi bastava la sua presenza, e quello che vedevo.
Mi ero illusa di riuscire a condividere con lui quell’esperienza. Invece sbagliavo.
Carlo era ormai una persona di vetro. Un uomo che offriva eleganti apparenze.
Poi si fece sera e le ombre degli alberi iniziarono a farmi paura, così come
la ragione di quel viaggio.
Mi ritrovai a molte centinaia di chilometri da casa, e da voi che eravate all’oscuro
di quella passeggiata tra quelle case a punta.
Dissi a Carlo di fermarsi, di trovare un albergo. Avevo voglia di una doccia, di uscire da quella macchina che col passare dei chilometri era diventata una gabbia.
Carlo disse che avevo ragione, e che eravamo quasi arrivati. Poi aggiunse che in uno dei suoi viaggi aveva visitato quella città, e che conosceva una pensione che s’affacciava sul Reno e sulle luci del centro storico.
Aveva ragione. La vista era meravigliosa. Dalla nostra finestra si vedeva la parte più bella della città. Troneggiava un verde strano a danzare sull’acqua di quel fiume quasi spettrale.
Poi scendemmo in strada e iniziammo a camminare per la città vecchia. Sorridevo e strisciavo i piedi su quel pavé umido e consumato dal tempo.
Dopo un po’ che camminavamo, Carlo si fermò.
Si voltò verso di me e disse, eccoci.
Mi prese la mano ed entrammo in un locale. Papa Joe’s era il suo nome.
Notai subito migliaia di bigliettini da visita appiccicati dappertutto.
C’era odore di fumo, e tanta gente in piedi. Non era un locale enorme ma dava
l’impressione di poter contenere centinaia di persone. La gente stava in pieni,
e beveva birra. Erano perlopiù uomini e donne di mezza età. Forse professori
universitari, dottori, gente che sapeva stare al mondo, o almeno questo è
quello che pensai in quel momento.
C’era musica dal vivo. Jazz.
In fondo al locale, un palco. Piccolo e innalzato un metro dal pavimento.
Rimasi a osservare per molto tempo quei musicisti e i loro strumenti.
Sembravano improvvisare, o fingevano di farlo. Poi si alzavano a turno
dalla sedia, e si lanciavano dentro un assolo. Qualcosa di poetico, di caldo e
meraviglioso. Qualcosa che giustificasse i litri di birra le pareti in legno la
gente allegra le noccioline le uscite di sicurezza illuminate di verde il
traffico verso i bagni le casse appese al soffitto, e i tanti sorrisi. Qualcosa
tipo l’armonia.
Non so per quanti minuti rimasi in quel limbo di perfezione tra contrabbasso
tromba trombone clarinetto pianoforte e chitarra e batteria.
Poi mi girai verso Carlo, che era al mio fianco e forse alla quinta birra.
E osservai il suo viso.
In quell’attimo i suoi occhi cambiarono forma. Forse in quel momento, che io
vidi, lui decise di essere qualcos’altro.
Qualcosa di diverso e meno doloroso. Di differente da lui e da me. Di più
banale, e semplice. In quel momento lui uccise un uomo, e questo ne sono
sicura, non se lo perdonò mai.
Era andato a morire in quella birreria, con me come testimone.
Dopo un po’ uscimmo, e fuori nevicava. I fiocchi scendevano piano.
Andammo in albergo e facemmo l’amore per tutta la notte. Per l’ultima volta.

QUANDO ARRIVAMMO DA LUI.

Carlo sedeva nel letto, ci dava le spalle.
Vidi il suo viso riflesso nel vetro, di fronte. Forse non ci vide entrare.
Eravamo delle sagome che camminavano, in cerca di qualcosa. Di un motivo per andare via, di qualcuno che ci dicesse: E’ tutto uno scherzo, potete tornare a casa. Ma non era così e lo sapevamo. Eravamo stati acciuffati dalla vita nel momento stesso in cui credevamo d’averla sopraffatta.
D’averla fatta franca.
Dall’ampia finestra filtrava una luce chiara e decisa. Di quelle che non fanno ombra.
Non sembrava la camera di un paziente che sta per morire, quella.
Io, e forse anche gli altri, dopo una notte passata a scivolare sull’asfalto, non avevamo più voglia di raccontarci delle cazzate.
Allora lui si accarezzò la nuca come gli vedevo fare spesso, da ragazzo, in quei suoi ultimi giorni senza colore, tra noi.
In quel momento mi tornarono in mente le birre e le serate passate in giro, per Bari. Rividi quei giovani che eravamo stati in pochi e nitidi e sbrigativi fotogrammi.
Mauro Tania e Marina mi guardarono. Eravamo fermi e senza coraggio. Quel silenzio senza forma aveva inondato la stanza, l’aveva resa un territorio senza contorni da percorrere col dito.
Allora, io feci quel che avevo immaginato di fare, per tutto il viaggio: andai verso Carlo e gli poggiai la mano sulla spalla. Quella destra.
Vidi il suo viso sorridere nel vetro. Dopo accarezzai quel cranio ormai privo di capelli, sussurrai il suo nome.
Fuori era giorno, era anche una splendida giornata per morire.
Lui si girò verso la mano, la mia, e la bacio. Si inumidì. Piangeva.
Carlo stava piangendo.
Non so per quanto tempo fissai il numero dei suoi battiti scritti sul monitor, e quei fili che andavano a nascondersi sotto la sua maglia bianca.
La parola “tachicardia” mi destò dal torpore di quel momento.
La luce arancio lampeggiava.
Carlo respirava male.
Dopo si accasciò sul letto, privo di sensi.
Poi la sequenza, che ogni tanto, sogno di notte: infermieri che mi spintonato fuori, la luce accecante del corridoio, la Madonnina sorridente vicino la finestra. Le rose e quel profumo fruttato nell’aria.
Le lacrime di Tania e quelle di Marina. E il silenzio dopo.
In quella camera stava morendo mio fratello, ed io lo sapevo. Ed ero immobile, e non sapevo far altro.
Quella sensazione di inutilità, di impotenza, la porto tatuata in ogni singolo poro della pelle. E’ sgradevole il suo odore. Dolciastro e patetico e acido.
Il suo aroma, rantola.
Dopo un po’ la porta si aprì, e vidi uscire a testa bassa i due infermieri e il medico.
Nicola.
Nicola.
Nicola.
Sentivo il mio nome, ma ero impegnato a seguire la rondine che volteggiava nel cielo, tra le antenne sui palazzi.
In quel momento avvertii una leggera pressione sulla mia spalla sinistra, sorrisi. Non ebbi il coraggio di girarmi.
Nel vetro vedevo riflessa solo la mia figura.

LUI CHE NON C’E’ PIU’.

Rimase il vuoto tra gli alberi, nelle campagne. Il canto bello e monotono
degli uccelli. Rimase l’erba ferma e il sospetto di un fiore che decideva a
schiudersi. E noi, fermi, appoggiati a una parete troppo pulita e troppo
piatta. In una precisione idiota. E finita.




Fandonie,
margherite laccate
e serene.
Nei rivoli tra l'erba
stanno le gambe stance
e appese
e capovolte.
Sembra ci sia il soffitto
per terra
e stelle squamate
tra la polvere sulle finestre.
Mettevamo
le saracinesche sotto i piedi
per volare sulla neve,
e qualcosa che dilatasse
le narici
a corto d'amore.
Troppo precise
erano quelle attese,
così come le chiome delle sirene
dei martedì spenti
quando la pasta scuoce
e si ricuciono i tormenti.
Chissà se era vera
quella musica
che ogni tanto risuona
nelle nostre teste
quand'è festa.
Sull'asfalto rotolava
ronzando
la mia ombra smarrita
al freddo
dei vetri appannati
sotto le lamiere
a riflettere la luce spenta
delle candele con la gola secca
come in certe sere agghiacciate.
Chiedevamo dov'erano
le viole appassite
e radunate a grappoli
come l'origano
che di profumo
abita le cantine,
ci chiedevamo dov'era l'amore.

Negli alberi a danzare
per la furia del vento
perdevamo i nostri sguardi
che con i giorni
si facevano stanchi
e pallidi
e disciplinatamente arrendevoli.
In noi
c'era la pazzia delle gocce
che segnano i vetri
dopo la pioggia.
I nostri cuori:
pompavano luce nei crepuscoli
dopo le ore passate al mare,
raschiavano la malinconia
dai bordi delle barche
ormeggiate nei porti
dipinti e sicuri.

Splendeva chiara e distaccata
la nostra giovinezza,
come certe mattine d'inverno
dove con la carta carbone
l'amore prende strane pieghe.


Ultima modifica di Gaetano Benedetto il 21/2/2010, 13:31 - modificato 1 volta.
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MessaggioTitolo: Re: CARTA CARBONE   CARTA CARBONE Icon_minitime21/2/2010, 09:32

Io ero libera in quel periodo, ero da poco laureata e non sapevo cosa farne,
realmente, di me.

Andammo in albergo e facemmo l’amore per tutta la notte. Per l’ultima volta.



Nicola
Nicola.
Nicola.
Sentivo il mio nome, ma ero impegnatoI n quella camera stava morendo mio fratello,

Mi sono persa, ma realmemnte la narrante prima è una donna, poi fanno l'amore, poi diventa Nicola e Carlo è suo fratello?
Forse ho letto male, mi sono appena svegliata!
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MessaggioTitolo: Re: CARTA CARBONE   CARTA CARBONE Icon_minitime21/2/2010, 11:51

nel secondo periodo c'è il monologo della ragazza
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Giampiero Pieri
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MessaggioTitolo: Re: CARTA CARBONE   CARTA CARBONE Icon_minitime22/2/2010, 00:26

Lascio un segnalibro, per ritornare.
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Giampiero Pieri
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MessaggioTitolo: Re: CARTA CARBONE   CARTA CARBONE Icon_minitime22/2/2010, 21:53

Sono sicuro che a questo racconto tieni moltissimo.
Certi istanti che ci scorrono attorno, silenziosi, inavvertiti nella maggior parte dei giorni, rimangono invece indelebili nella memoria quando tutta la nostra anima è tesa a percepire il significato dell’esistenza. Si dice infatti che l’egoismo ci porti molto spesso a considerare le cose amate, e ancora di più le persone, solo quando ormai esse sono irrimediabilmente perdute, o come quando la realtà ci pone di fronte alla loro perdita ineluttabile, imminente. In quei momenti tutto il nostro essere si risveglia improvviso, diviene attento ogni secondo che passando si dissolve, e acuito com’è, fissa dentro di sé ogni pur minimo dettaglio, di cui poi si ciberà avidamente il ricordo. La vita ci porta alla fuga continua, a cercare sempre un altro orizzonte, a sfuggire la quotidianità. Poi, certe volte, ci accorgiamo che tutto ciò che aveva un senso era già lì, accanto a noi. E’ sempre troppo tardi per tornare indietro. Troppo tardi per significare all’altro ciò che improvvisamente si scopre di provare per lui. E’ una lezione amara. Prima o poi si è costretti a diventare adulti, che lo si voglia o no. E troppo spesso è proprio la morte che ballandoci oscenamente davanti diventa insegnante.
Io lo trovo un racconto dolce e amaro allo stesso tempo, con la cruda realtà stampata su quella parete troppo pulita.
(C'è un solo elemento, di cui non chiederò, che si fa notare per la sua assenza. Sicuramente voluta. Ritengo che la tua capacità di scrivere della vita sia di indubbia sensibilità, a partire fin dalla acuta descrizione dai momenti più piccoli per finire ai temi che la sovrastano caratterizzandola per ognuno di propri significati. Penso perciò che tu lo abbia omesso volutamente. Chissà, in un altro racconto forse ce ne parlerai, quando sarà il momento giusto per te. Lo spero).
P.
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MessaggioTitolo: Re: CARTA CARBONE   CARTA CARBONE Icon_minitime7/9/2010, 18:58

piero voglio riprendere quel discorso fatto di parole purtroppo interrotto, non c'è una particolare sofferenza, è il tempo che si è fatto distratto
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Luca Curatoli
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MessaggioTitolo: Re: CARTA CARBONE   CARTA CARBONE Icon_minitime13/9/2010, 22:42

c'è vita qui
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MessaggioTitolo: Re: CARTA CARBONE   CARTA CARBONE Icon_minitime

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