Fandonie,
margherite laccate
e serene.
Nei rivoli tra l'erba
stanno le gambe stance
e appese
e capovolte.
Sembra ci sia il soffitto
per terra
e stelle squamate
tra la polvere sulle finestre.
Mettevamo
le saracinesche sotto i piedi
per volare sulla neve,
e qualcosa che dilatasse
le narici
a corto d'amore.
Troppo precise
erano quelle attese,
così come le chiome delle sirene
dei martedì spenti
quando la pasta scuoce
e si ricuciono i tormenti.
Chissà se era vera
quella musica
che ogni tanto risuona
nelle nostre teste
quand'è festa.
Sull'asfalto rotolava
ronzando
la mia ombra smarrita
al freddo
dei vetri appannati
sotto le lamiere
a riflettere la luce spenta
delle candele con la gola secca
come in certe sere agghiacciate.
Chiedevamo dov'erano
le viole appassite
e radunate a grappoli
come l'origano
che di profumo
abita le cantine,
ci chiedevamo dov'era l'amore.
Negli alberi a danzare
per la furia del vento
perdevamo i nostri sguardi
che con i giorni
si facevano stanchi
e pallidi
e disciplinatamente arrendevoli.
In noi
c'era la pazzia delle gocce
che segnano i vetri
dopo la pioggia.
I nostri cuori:
pompavano luce nei crepuscoli
dopo le ore passate al mare,
raschiavano la malinconia
dai bordi delle barche
ormeggiate nei porti
dipinti e sicuri.
Splendeva chiara e distaccata
la nostra giovinezza,
come certe mattine d'inverno
dove con la carta carbone
l'amore prende strane pieghe.