Accompagna i miei passi frenetici un fiumiciattolo alla mia destra che scorre su di un fondale di sampietrini , trasportando verdi trasparenze e finissimi granelli di rabbia verso un luogo che non conosco ancora.
Ho rubato le ante della speranza per ammirare un panorama di arte e rocce umide bagnate dal sole che uccide nell’alba e dà vita nei tramonti, che spoglio dei suoi raggi come una margherita di campo.
Tra la funivia e la montagna, lascio un ricordo che sia di gelsomino,selvaggio, profumato, semplice, perché la semplicità è bellezza, è purezza; alle mani che ho stretto qualche sera fa potrei chiedere di non ricordare, di gettarsi dai fiordi della poesia per imparare il volo del divenire dell’anima; ma no, lei non aveva nessuna colpa per l’incenso sprecato davanti le pattumiere, tutt’al più un breve rimprovero per non essersi accorta dell’argento tra le onde del lago.
In certi momenti di vuoto, di sordi rumori di mestoli in calderoni di fuoco, in realtà sta maturando una parte di te, un emisfero di silenzio battuto da correnti di “non voler più ripartire”, e le stelle che sembravano solo irraggiungibili diamanti, si aprono versando atomi di gloria e bagliori di verità.
Soffro, soffro maledettamente nel vedermi ombra che si allunga sulle colline della vigliaccheria, vorrei un susseguirsi di luce, di davanzali affacciati su praterie brulle, coperti qua e là sul ferro puro e malinconico di ruggine, di fiori secchi da collezione,coi petali fragili e vecchi che si spezzano non appena un cuore di farfalla gli si poggia sopra.
Finalmente ho sentito la forza di una mano dire “no”, ed era quella vergogna che una volta provata ho custodito in un gioco di dolore e gioia da regalarle di notte, da sottrarle di giorno, in un alternarsi di “perché” e “me stesso”, ma altro non è che un naufragio dal quale non riesco a scampare.
Ho impresso quanto resta di me, sotto forma di haiku, la solitudine, la sterilità, l’abbandono, tutto come una frazione dove ogni terzo è parte del mondo senza che nessuno possa mai osare contraddire la spiritualità ed il vetro opaco che si è conficcato sulla schiena dei poveri poeti incompresi, sacrificati e diventati ansia tra i rimorsi delle foglie; ed il silenzio è già una vela.
Mi ha tormentato per una nottata intera con le sue unghia, ed era un abbraccio tra bambole di stoffa e linee, e pagine, e passeggiate sulle rive dell’innocenza, da dove l’unico volo che si leva è quello di un’acqua oramai vecchia e pura; ed il silenzio era già vento.
Quando ho riaperto gli occhi la guancia del mondo s’era appena affondata in nuvole dai contorni tratteggiati, era l’ipocondria delle risa e l’abitudine della derisione, accanto si apriva uno slargo, qualche scalino, due vasi ben curati con delle spighe portafortuna che indicavano la scalinata degli attimi che si sarebbero voluti vivere, e le spighe stavano rivolte verso il basso; e finalmente il silenzio era diventato orizzonte.
Dentro la cattedrale ognuno di noi era invitato a non accorgersi del male che stavano provando le cornici, scalfite dai nostri sguardi, trascurando quanto potesse esserci di romantico nelle stanze che avevamo appena finito di imbiancare, ma io e lei volemmo coprirci con le trine da poco sottratte al precipizio del “dirsi addio”.
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Un passo stanco, un pensiero che arranca nel divenire, una marea che si promette in sposa alla luna, e le ultime perle da donare alla libertà dell’immenso mare.