QUESTO MONDO NON E' FATTO PER ESSERE SCRITTO - DIGITAMAN LUCA CURATOLI

Era una fresca limpida giornata d'aprile e gli orologi segnavano l'una.
Questo immaginò appena gli venne di aprire gli occhi. Invece nel buio del letto, il quadrante del suo orologio da polso, un Casio a fosfori verdi del 1971, segnava addirittura le tre. Anche quello da tavolo indicava la stessa ora. Sarebbe stata una fresca e limpida giornata d’aprile? Nessuno poteva saperlo. Fin quando questo freddo non lasciava la sua stanza. I rintocchi degli orologi avevano il loro tempo. Questo pensiero lo rassicurò come sempre e all’istante lo invitò a riflettere su molte e strane cose.
Finché venne il mattino. Si alzò protestando peggio di un bambino. Se sua madre fosse stata ancora lì, le avrebbe detto di non costringerlo ad alzarsi. L’avrebbe convinta a misurargli la febbre senza preoccuparsi di niente. Doveva andare a lavorare. Gli pesava non poter portare con se tutti quei meccanismi perfetti. Dalla cucina altri rintocchi di orologi. In verità era solo quello sopra la porta: un Chippendale dei primi del novecento. Aveva sempre pensato che quello fosse un posto strano per un pezzo così pregiato. La sua casa era piena di orologi e del suo lavoro. Aveva ereditato quella passione da suo padre e col tempo ne fece una sorta di dolce ossessione. Collezionava ogni tipo di orologi, eppure la sua vita scorreva sempre identica a se stessa. Era monotona? Nessuno lo sapeva perché egli parlava molto poco. I suoi pensieri belli e brutti che fossero se li teneva dentro. Parlava con frasi molto brevi, rivolte ai clienti del suo piccolo negozio, alla cassiera del supermercato, al tabaccaio per le sigarette, al giornalaio…
Era una fresca e limpida giornata d’aprile: così gli sembrò una volta tirata su la persiana. Gli uccelli cantavano e forse la stagione degli amori poteva finalmente cominciare. Nei suoi orologi a cucù invece gli uccellini di legno e di plastica erano sempre innamorati. Lui non amava nessuno. Non aveva mai amato nessuna donna; insomma come poteva farlo un uomo.
Quello che fece dopo faceva parte di un suo personale rituale. Controllava che tutti gli orologi fossero a posto e solo dopo si preparava il caffè. Sul servo muto pendeva la giacca e il pantalone. Erano indumenti pesanti e molti grossi. Metteva lo stesso abito per tutta la settimana. Poi la domenica faceva il bucato. Ma oggi era solo martedì. Andò in salotto con la tazza fumante a guardare il solito quadro. Un raro quadro orologio viennese del 1820. Gli piaceva quel piccolo quadrante rotondo, sul campanile dipinto e le casette attorno. Come sempre lo sorprese il desiderio di possedere un intero campanile. Il pensiero anche questa volta gli strappò un accenno di sorriso. Era ora di andare.
Il negozio stava in fondo alla discesa, in una traversa molto stretta. Prima, come ogni mattino, si allungava sulla piazza del lungomare. Lo si poteva trovare ogni giorno su quella panchina. Sempre alla stessa ora. Alle nove in punto. Non ci si poteva sbagliare.
Ora un compaesano lo osservava di spalle. Quelle grosse imponenti spalle. L’uomo degli orologi, come un giorno lo apostrofò non ricordando il suo nome, era immobile e probabilmente guardava dritto verso il mare. “Chissà a cosa pensi” pensò l’osservatore. Prima di andarsene per la sua strada ricordò quel giorno di molti anni fa, quando egli non era che un bambino. Andò col padre nel negozio e così conobbe quell’omone. Sembrava a suo agio in quel disordine e in quello spazio angusto. Aveva i capelli unti. Lo colpirono tutti quei meccanismi smontati e fece innocenti domande su alcuni attrezzi. Quello rispose a tutto senza mai guardarlo in faccia. Allora il padre confidò all’orologiaio che suo figlio da grande avrebbe voluto fare il giornalista o qualcosa di simile. Se la ricordava ancora adesso quella risposta. Disse l‘uomo degli orologi, quella volta guardandolo dritto negli occhi: disse piano piano “Questo mondo non è fatto per essere scritto”.
Da allora lo ricordò come un tipo burbero che dava strane risposte ai bambini per impaurirli. In fondo si trattava solo di una fantasticheria da poppanti. Avrebbe potuto pure sorridergli no? E invece allora come più tardi egli non mostrò nessuna simpatia per lui. Nemmeno curiosità per lo sguardo di un bambino nella polvere delle sue cose misteriose. A dirla breve il bambino crescendo dimenticò quella fantasia. Si impiegò in una ditta e non si può dire che gli sia andata così male. L’uomo sulla panchina era ancora lì ma per poco: mancavano diciotto minuti all’apertura del negozio e infatti controllò l‘ora estraendo dal taschino uno dei suoi orologi. Da bambino decise di immaginarselo come un grande orologio, quell’uomo insolito. Al posto del cuore doveva avere uno di quei meccanismi pieni di ruote dentate e altri minuziosi ingranaggi. Non gli sembrava cattivo e niente e nessuno confermarono mai simili illazioni. Quello era un mistero. In quel momento gli venne un pensiero strano: possono gli orologi essere buoni? Chi lo sa. Guardò il cielo azzurro non certo per trovarvi una risposta.
Il passante divenne a sua volta un’ombra di spalle, per chi si fosse dato la pena di gettare uno sguardo verso di lui. Uno sconosciuto che si allontanava sulla lunga e dritta strada del lungomare.