Probabilmente voi sorridereste se foste qui al mio posto.
Io però non riesco.
Giù al molo del mio paese ero solita dipingere. Dipingevo orrendi tramonti, disdicevoli ragazzi, risa storte e senza forma. Ci volle poco meno di qualche giorno per capire che non fossi portata. Ci vollero solo tre settimane per capire che ero veramente negata. Ci vollero sei mesi, sei splendidi mesi, per fargli capire che non andavo al molo per dipingere.
Ogni giorno lui è era lì, sull’altra sponda del fiume. Giocava, rideva e come ogni altro giocatore rincorreva quella palla. Io ero sempre lì, con i miei colori, la mia tela e l’acqua che mi sfiorava le dita, scorrendo lenta. Era strano, ogni volta cercavo di ritrarlo e una sottospecie di sgorbio demoniaco mi sorrideva tra quei colori mutilati, non mi annoiavo. Non mi annoierò mai di guardarlo. Non parlo del mio quadro ovviamente, ma sono certa che l’avevate intuito.
Lui era sempre lì e io ero sempre lì; anche il ponte era sempre lì. Era tra noi due, distava solo dieci metri dallo spiazzo sul quale mi appollaiavo. Mi bastava alzarmi e attraversalo. Sì, come no. Non ho mai avuto nemmeno la tentazione di provarci. Non potevo andare io, perché nel mio sogno era sempre lui che veniva da me. Magari ora pensate che io lo sogni tutti i giorni. Oh magari, non l’ho mai sognato sfortunata come sono. Però è il mio sogno più grande che un giorno venisse e… e boh. Sinceramente la mia immaginazione non va oltre quel ponte, quel momento; non osa nemmeno sfiorare immaginari più arditi. Mi vergogno già abbastanza per questo mio piccolo desiderio, non ho di certo bisogno di inquinare il mio sogno con certe volgarità.
A pensarci bene una mattina, però, vidi due ragazzi baciarsi. Inevitabilmente pensai a lui. Ma solo quella volta. Sono arrossita subito e sono scappata in casa, in camera, sotto alle coperte, tra le palpebre, in un pianto.
Ma non è di quella mattina che volevo raccontare.
Ogni giorno che andavo al molo, il mio obiettivo era uno solo. Aspettavo paziente che la partita finisse, che tutti corressero per il campo gridando e che quel piccolo gruppo di ragazzi si avvicinasse alla riva del fiume a torso nudo, tutti colmi della fatica dovuta ad aver ricorso una palla e che si tuffassero nel fiume. Non era esattamente il fiume, tutto sommato la corrente era pericolosa; era una specie di piscina, una profonda fossa nel terreno che con l’alta marea si riempiva.
Proprio lì, lui e i suoi amici si tuffavano e ridevano e scherzavano. E io, invano, cercavo di ritrarre quella loro gioia e spensieratezza, magari mi sentivo in qualche modo parte del gruppo, partecipavo anche io dopotutto. Erano lì con me, ad un palmo dal mio pennello. Mostruosi e orrendi come solo la mia invidia poteva ritrarli. E lui ogni volta usciva dalla piscina, si affacciava sul ponte e sgranava gli occhi nella mia direzione, poi un amico lo chiama e il mio quadro era finito.
Mi sento un po’ patetica. Sì beh, un po’ lo sono. Però mi piace passare così i miei pomeriggi.
Qualche giorno fa una signora della città è venuta a casa mia. Una parente lontana venuta a comunicarci la morte del cugino di un fratello della madre di non so quale pronipote. Noi, estremamente rattristati come potevamo essere, le abbiamo offerto l’ospitalità dovuta a una notizia così amara. Lei, girando curiosa e addolorata per la casa, ha visto le tele che metto in soffitta. Forse per l’estremo dolore o per uno spasmo di follia è rimasta incantata da quegli orrori. Li ha definiti con un nome tutto pomposo di quelli che usano i signorotti della città e ha detto che li comprava tutti. I miei genitori e mio fratello, consci del valore inestimabile delle mie opere, hanno riso di gusto alla notizia, ma quando la signora ha strappato un assegno per il malloppo il silenzio è caduto assieme agli occhi di mia madre sulle cifre di quel pezzo di carta.
Proprio oggi, proprio ora sto dipingendo quella che definirei la mia opera migliore. Un orrore come tutte le altre, ma è di sicuro quella che preferisco. L’ho appena ultimata e l’ho appoggiata sull’erba morbida sulla quale sono seduta.
Mi sono fermata a guardare i ragazzi che come al solito si tuffavano nella loro piscina privata, quando vedo lui calciare il pallone con forza sovrumana. La sfera arriva dalla mia parte, sembra dovermi travolgere, penso che mi ucciderà e chiudo gli occhi ma quello, infimo, si ferma sul mio capolavoro. Si ferma per dire, dato che lo buca macchiandolo di fango.
Lui corre verso di me. Mi guarda e sorride.
“non mi sbagliavo” dice “sei davvero bella come mi sembravi dall’altra parte del fiume”.
Io non lo guardò nemmeno, il mio quadro è caduto nel fiume e viene trasportato dalla corrente, per sempre lontano da me. Lui, il mio sogno, è restato dall’altra parte del fiume.
Mi alzo e sorrido cortesemente “devo tornare a casa, ho ospiti”.
Mentre cammino verso casa mia e lui mi segue, una lacrima mi solca il viso: quando ci si sveglia nessuna realtà può restituire la bellezza di un sogno. Non mi annoierò mai di guardare un sogno.