Mi chiedi di parlarti del dolore.
Non è facile parlarne, ci sono tanti tipi di dolore e tutti sono degni del massimo rispetto, anche quelli che agli occhi degli altri possono apparire banali.
Io ti parlo oggi del dolore che più mi ha inciso e che probabilmente si ripeterà quando anche l’altro mio genitore se ne andrà per sempre, è inevitabile.
Mio padre è morto il 24 maggio del 1999 a causa di un tumore al midollo osseo.
Non ho ricordi di lui che mi coccolava, che mi baciava, che mi abbia mai detto che mi voleva bene.
Non aveva bisogno di esprimerlo a parole, tutti i suoi gesti, nei confronti miei, di mia madre e di mio fratello lo dicevano.
Lavorava a turni in fabbrica e tante feste ha sacrificato alla famiglia per portare a casa quei pochi soldi in più che potevano servire.
Tante feste meno una: il giorno di Natale era sacro, era il giorno tutto per noi.
Ho dei ricordi che affondano le radici nella mia infanzia che sono così vivi che mi sembra ieri: lui a capotavola con il vestito in giacca e la cravatta, mia madre al suo fianco fresca di parrucchiera, noi bambini con gli abiti della festa tutti compiti in attesa dei pacchetti che c’erano destinati.
Ho un ricordo della prima Fiat che riuscì a comprare nel 1967, io avevo sei anni: era una Fiat 1100 color azzurro acqua, una cosa oscena, ma cavolo come mi vantavo quando la domenica che era di riposo ci caricava e ci portava dai nonni in campagna...
Mi sentivo una principessa perché lui mi faceva sentire tale.
Era un operaio, aveva mani nere piene di calli, i vestiti da lavoro erano poveri, ma aveva la dignità tipica dei lavoratori e delle persone oneste.
Riuscì a costruirsi la casa, a costo di mille sacrifici e mille rinunce, ma sempre a scapito di cose che non toccavano me, si comprava salsiccia e carne di maiale al posto della fiorentina, ma la bambola Cicciobello arrivava puntuale al compleanno.
Nel 1983 mi accompagnò all’altare con il mio braccio sotto il suo.
Nelle settimane che precedevano la mia festa di nozze, andai con lui e mia madre a scegliere il vestito: era un gessato nero con il panciotto, una camicia bianca ed una cravatta grigio perla.
Allora dimenticai quella frase che buttò scherzosamente.
"Questo sarà il vestito con il quale mi seppellirete..."
Quelle parole mi tornarono in mente come un lampo nel cervello dopo 16 anni, quella mattina del 24 maggio del 1999.
E ancora oggi mi rammarico di non aver più trovato quella cravatta grigio perla per quanto abbia frugato in ogni cassetto e che fu motivo di litigio con mia madre.
Nel 1984 si ammalò.
Controlli ed esami periodici per quindici anni, un miracolo per la medicina perché il suo tipo di tumore è letale, se prende un giovane non gli lascia molto da vivere.
E’ una sorta di leucemia del midollo osseo, ora dicono che con un midollo osseo compatibile ed un trapianto si può anche avere qualche speranza.
La speranza l’abbiamo avuta per quindici anni, poi un aggravamento dei valori e l’inizio della chemioterapia.
Era ancora una Persona dignitosa quando andavamo al centro oncologico alla mattina alle sette a fare la flebo di chemioterapia.
Era ancora una Persona dignitosa quando andavamo assieme al P.R.A. a richiedere la patente speciale poiché malato terminale.
Era ancora una Persona dignitosa quando scherzava sulla sua malattia e sulla sua morte.
Era ancora una Persona dignitosa quando costrinse me e mio fratello ad accompagnarlo in banca ed intestare a noi tutti i risparmi di una vita perché non si sa mai che cosa succede.
Perse la sua dignità nel momento in cui da Persona divenne un numero in un ospedale, che aveva bisogno degli altri per ogni piccola cosa, come soffiarsi il naso, perché quelle sue mani forti e callose non avevano forza e bastava un nulla perché il cancro gli facesse spezzare le ossa.
Perse la sua dignità nel momento in cui il dolore sovrastava la ragione, quando l’unica sacca giornaliera di morfina terminava.
Ricordo come fosse stamattina la mia litigata col medico e le mie parole:
"O che gli date la morfina voi o la vado a comprare io da uno spacciatore e provvedo personalmente ad iniettargliela in vena".
Riacquistò la sua Dignità d’Uomo solo per un momento, in un raro momento di lucidità quanto mi abbracciò e da figlia divenni mamma.
Mi chiamò Mamma.
Quella sera andai a casa, mia madre insistette molto per farmi andare a casa a riposare, erano nove giorni che passavo la notte in ospedale ed ero sfinita.
Io so che fu lui, mio Padre, a svegliarmi alle 4,30 della mattina ed accompagnarmi al telefono che in quel momento squillò e la voce di mia madre mi disse che era andato.
Io non voglio ricordare mio padre in quel letto d’ospedale.
Lo voglio ricordare il partigiano diciottenne sulle montagne dell’appennino modenese che combatteva i tedeschi e le serate passate ad ascoltare quelle storie di guerra.
Voglio ricordare l’operaio dalle mani nere e callose, comunista accanito ma sempre equo nel giudicare le cose.
Lo voglio ricordare con quella sua cravatta grigio perla mentre mi accompagnava all’altare, lo voglio ricordare quando mi ha preso il mio primo bambino, neonato di quattro giorni e lo ha messo sotto il muso del nostro pastore tedesco affinché capisse che il piccolo era intoccabile.
Lo voglio ricordare in montagna quando partivamo io e lui all’alba per andare a funghi nei boschi: non sono più tornata a funghi, non ne riuscirei più a sentirne il profumo come quando andavamo assieme.
Lo voglio ricordare come esempio di vita.
Una persona dignitosa con una grandissima ricchezza interiore.
Non voglio morire come lui, non meritava di morire così, nessuno merita di morire così.
Non so se ho parlato del dolore, so che ho parlato di un Uomo e della sua dignità d’uomo e del dolore, mio, di non averlo più con me.
Micheli Fioravante
Sestola 26/02/1926 – Sassuolo 24/05/1999