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 Marcello Devenuti (flussodiparole)

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Marcello Devenuti
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Marcello Devenuti


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MessaggioTitolo: Marcello Devenuti (flussodiparole)   Marcello Devenuti (flussodiparole) Icon_minitime15/7/2009, 17:02

LE STRADE DELLE LATTIFERE - I^ parte

Molti fatti della storia comune sono scritti nei libri. Altri sono nella memoria di uomini e donne, come nel 1943, durante la guerra, quando si trovarono ad essere involontari protagonisti di una tragedia scritta da altri.
I bassi salari e le carte annonarie, insufficienti a soddisfare la fame, spingevano gli abitanti delle città a cercare in campagna le scorte alimentari per sopravvivere.
L’alternativa era la borsa nera, impraticabile per i più poveri.
Gli speculatori, per avidità (a volte cominciavano per bisogno), battevano la campagna comprando di tutto per pochi centesimi.
Poi, approfittando della mancanza dei generi alimentari di prima necessità, lo rivendevano in città a un prezzo dieci volte maggiore.
Il mercato nero nacque con le carte annonarie e con il bisogno di pane.
Le processioni verso le campagne furono una delle risposte alla miseria.
Fu così che iniziarono i viaggi delle Lattifere: i pellegrinaggi laici della speranza e della fame.


Le vie delle Lattifere si aprivano a ventaglio dal cuore della città, per snodarsi sulle strade consolari. Furgoni e camioncini, a volte motocarri per i percorsi più brevi, s’immettevano sulle strade statali alle prime ore della notte.
Appena la città cominciava a farsi campagna, aveva inizio la loro opera di raccolta del latte presso i piccoli allevamenti contadini.
Gli autisti delle Lattifere caricavano spesso alcuni passeggeri, per pochi centesimi, tanto per arrotondare i magri salari. Due, tre e anche quattro persone che, durante il tragitto, scaricavano negli incroci di destinazione.
A fine giornata, sulla via del ritorno verso la Centrale del Latte, i furgoni li riprendevano a bordo per riportarli in città.

Le carte annonarie, nominative e rilasciate dai comuni, erano composte da bollini per il consumo mensile di pasta, olio, carne, zucchero ed altri beni. Per il pane erano previsti trecento grammi, ridotti verso la fine del conflitto a soli cento.

Il latte era disponibile solo per i bambini ed era necessaria la prescrizione medica.
Ad ogni acquisto il negoziante staccava il bollino del prodotto richiesto. Dopodichè non si poteva acquistare altro.
Si facevano code di ore per aspettare che arrivasse il bidone del latte, per un quartino a testa. Finiti i bollini cominciava la fame.
Chi aveva la fortuna di avere farina di cereali o di mais, faceva la polenta, quella gialla fatta con il granturco.
Il caffé era un surrogato: un insieme di semi, compresa cicoria, radici e bucce di arancia da abbrustolire sulla stufa. Alla fine si macinava il tutto, con il macinacaffé a mano (il gioco preferito dai più piccoli). Veniva fuori una polvere nera con la quale si faceva il caffé. Anche lo zucchero era quasi nero, a volte rossastro. Erano pezzi, come pietre da sbriciolare.

Era questa *la domestica* economia di guerra.
Il diciannove luglio del millenovecentoquarantatre iniziò il bombardamento di Roma. la data fu scelta con riferimento ad una ricorrenza storica: l’incendio di Nerone. Cominciò alle ore 11,03.
Si svolse in due fasi: dalle 11,03 alle 12,10 sugli scali ferroviari del Littorio e di San Lorenzo, come obiettivi primari e dalle 12,12 alle 13,35 sugli aeroporti della Salaria e di Ciampino sull'Appia, per riprendere, poi, alle 15.00.
Le fortezze volanti e 300 bombardieri scaricarono circa 1060 tonnellate di bombe, più 4000 ordigni incendiari e spezzoni, dalla quota di "Venti angeli", 20.000 piedi di altezza.
Sulla verticale dello scalo merci di S.Lorenzo, da 6.000 metri, “Lucky Lady” cominciò a sganciare bombe da 250 chili, con gli Arkansas, i Travellers, i Pretty Boy, i Dark Lady, gli Winnie Oh Oh, gli Geronimo secondo” e gli altri B-17 della prima formazione.
Le bombe caddero anche sul Casilino e sul Prenestino, ma la devastazione maggiore la subì il quartiere San Lorenzo.
Nelle relazioni ufficiali degli Alleati la missione Crosspoint venne giudicata "Poco interessante perché troppo facile". Too easy, dicevano i piloti e i puntatori, che definirono il raid su Roma col nome usato per le missioni tranquille: Milk run, la corsa del latte. L'itinerario fatto dal lattaio, la mattina, per consegnare le bottiglie di porta in porta……

La Lattifera era in ritardo, pochi minuti. La donna e la bambina erano partite appena passata la mezzanotte, per trovarsi nel punto di raccolta. Erano sole, non c’erano altri viaggiatori. Entrambe vestite di nero, a più strati. Benché fosse l’inizio di giugno, a quell’ora era abbastanza freddo.
La madre, magra e sui quaranta anni, portava un ampio scialle di lana sulle spalle. Le mani nervose ne tiravano i lembi inferiori. I suoi occhi saettavano per le vie buie della città. Uno sguardo da lupa in cerca di tutto. I suoi movimenti erano intensi e repentini.
La figlia, quasi dodicenne, era avvolta in una mantellina di panno. Il cappuccio sulla testa. Guardava la madre e le strade, con curiosità ed emozione per quel viaggio. I suoi occhi, come quelli della donna, cercavano continuamente, sfrecciando su ogni cosa e persona. Avevano la luce di quando, con i suoi fratelli e sorelle, rovesciava sul tavolo il cassetto del pane. Pane non ce ne era, ma loro erano alla caccia di croste e molliche.
Il volto spigoloso della donna mostrava i segni della privazione. Era duro e determinato. Che ci fosse ansia lei non lo mostrava. Non poteva permettersela.
A volte rideva, come in quel momento, quando la figlia le mostrò un ubriaco che ondivagava, parlando alle proprie scarpe. Era un riso intenso, da popolana. Squillante anche, ma solo per un breve attimo, per tornare subito attenta ai segreti della notte.
La vista di uomini che si aggiravano per la città, penetrandole con occhi scintillanti, le faceva assumere uno sguardo tagliente, mentre la postura si faceva imperiosa, da cacciatrice.
La lattifera apparve all’inizio della via di Porta san Pancrazio. Arrivò sul punto di raccolta, con due colpi di clacson.
L’autista chiese se c’erano altri viaggiatori. Lei fece di no, con un cenno del capo. Salirono sul furgone e, tenendosi alle corde, si sedettero tra i fusti vuoti del latte.

La bambina respirava ogni piccolo particolare del percorso, mentre la madre, tenendola per le spalle, la tirava a se.
Il sonno, agevolato dal rullio del mezzo, si affacciò più volte, ma non si riusciva a dormire. Il camioncino fece altre due soste, caricando tre passeggeri. Dovettero stringersi ancora di più. Lo spazio era limitato dai bidoni metallici.
Finalmente furono fuori città. Superato il bivio della Monachina, il mezzo tirò dritto, senza più fermate.

Nei pressi di Malagrotta rallentò visibilmente, fino quasi a fermarsi. I passeggeri si alzarono in piedi, per vedere. La bambina aveva lo sguardo illuminato dalla sorpresa. Era come un gioco. Il gregge passò oltre e l’autista smise di bestemmiare, ripartendo.
All’altezza di Maccarese, la madre scosse la figlia, appena appisolata. Tra poco sarebbero giunte all’incrocio per Torre in Pietra, dove i parenti le stavano aspettando.
Era ancora buio quando si avviarono, sopra un carro trainato da una coppia di buoi, verso il casolare di campagna, distante alcuni chilometri.
Lo zio affidò alla bambina le briglia del carro. Lei si profuse in esclamazioni raggianti. Anche la sua cuginetta era venuta ad aspettarle. Per l’emozione del loro arrivo, aveva passato la notte insonne.
Le due bambine ridevano di complicità e divertiti dispetti, senza malizia, quasi non fossero trascorsi alcuni mesi dal loro ultimo incontro.
Arrivati al casolare e dopo i saluti, sempre calorosi e pieni di domande, fecero colazione con latte e pane bianco.
Appena giorno le donne si riunirono davanti al camino, dove bolliva un pentolone. C’erano tante cose da dire. Sembrava che il tempo fosse insufficiente per raccontarsi tutto. Parlarono a lungo, mentre gli uomini si avviavano per i campi e la stalla.
I lavori della terra, dell’orto e la cura degli animali, riempirono ogni attimo della giornata.
Per la bambina era tutto un gioco: nascondersi nel fienile; inseguire anatre e galline; raccogliere legumi e guardare il vitellino mentre cercava il latte della vacca. Anche la mungitura fu memorabile. Lei stessa, dopo le istruzioni e seduta all’altezza delle mammelle della mucca, cominciò a strizzare i capezzoli. Ogni tanto, guardando la cuginetta alle prese con l’altra vacca, scoppiava a ridere. Poi, spalancando gli occhi, si leccavano le dita gocciolanti e cominciavano a schizzarsi il latte, attente a non essere viste dai grandi.
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MessaggioTitolo: Re: Marcello Devenuti (flussodiparole)   Marcello Devenuti (flussodiparole) Icon_minitime15/7/2009, 17:03

LE STRADE DELLE LATTIFERE - II^ parte

I contadini erano più fortunati: avevano la carne con gli animali da cortile; le verdure e i legumi nell’orto e il latte, dall’allevamento di una o due mucche. Con la loro farina da cuocere al forno, potevano fare il pane bianco, da tenere in dispense collocate nei luoghi più freschi della casa. Per questo la gente di città girava per le campagne con qualsiasi mezzo, sia presso parenti e conoscenti o bussando alle case coloniche. A volte tornavano con piccole scorte, regalate o acquistate a basso prezzo. Altre volte portando una gabbietta di pulcini, da tenere sul balcone di casa con una zampetta legata ad un vaso. I pochi avanzi della cucina servivano a farli ingrassare. Sempre, in occasione delle festività maggiori, uno dei pulcini, divenuto gallina, veniva cucinato e mangiato, interiora comprese.
Alle dodici, assieme a tutti gli altri, si avviò verso il casolare. La cucina era avvolta in un profumo intenso e inebriante, che sembrava saziare.

Gli uomini portarono il pentolone di polenta sulla spianatoia di legno. Sua madre cominciò a stenderla. Infine, tra le risa e le esclamazioni dei presenti, la zia versò sulla polenta un pentolino di salcicce e sugo di pomodoro.
Il viso della bambina era paonazzo di gioia, mentre con gli occhi andava da sua madre al capofamiglia, fermandosi più volte sulla tavola imbandita.
Quella che ormai era una festa continuò anche nel pomeriggio, con la raccolta degli ortaggi e la pulitura dei legumi.
La madre non si fermò un solo momento, tranne che per il pranzo. Aiutò a sparecchiare, lavò le stoviglie e spazzò il pavimento, benché la sua anziana zia e le sue cugine le ripetessero di starsene tranquilla. Lei trovava sempre il modo di essere utile, con semplicità e dedizione. Da tempo si era privata dei pregiudizi dell’orgoglio. Era una donna fiera, ma consapevole che l’orgoglio non riempiva la pancia, e lei aveva cinque bocche da sfamare.

Il pomeriggio arrivò in fretta, troppo in fretta. Erano le diciotto passate e alle venti e trenta sarebbe arrivata la lattifera, ad aspettarle nei pressi dell’incrocio convenuto.

Doveva tornare in città, subito. Nella loro casa, in piazza Mastai, aveva lasciato l’ultimo di cinque figli, di appena quattro mesi. Lo aveva affidato all’altra figliola di dieci anni e ad una parente che viveva sul loro stesso pianerottolo.
Inoltre aveva sentito dire che alcuni, tra parroci e benestanti di San Lorenzo, avrebbero consegnato dei pacchi dono ai più bisognosi. Poteva essere una leggenda, come tante in quei tempi, ma lei non poteva lasciare spazio al dubbio. Si salutarono con ripetuti abbracci. La commozione era quella di sempre, così come le lacrime di riconoscenza. I parenti le dissero di rimanere almeno un altro giorno, o lasciare la bambina, ma lei non poteva.
Partì con le sporte di doni: due fagotti di sopravvivenza, fatti con canovacci di cucina e annodati in cima, a guisa di maniglia.

Così, con la mano stretta su quella della figlia ed una sporta ciascuna, presero la via del ritorno.
Il dieci luglio del quarantatre le armate dei generali Patton e Montgomery sbarcarono in Sicilia. La mafia facilitò le operazioni e ricevette, in compenso, il potere nelle amministrazioni locali. Il 90% dei comuni siciliani furono governati da boss mafiosi, al fine di assicurare l'ordine alle spalle delle truppe alleate. Fu così che la mafia recuperò le posizioni che aveva perduto con gli interventi di Cesare Mori, il prefetto di ferro. Famosi gangster, quali Vito Genovese e Lucky Luciano, circolavano indossando l’uniforme dell'esercito americano o esercitavano funzioni pubbliche di rilievo nell'amministrazione alleata d'occupazione.
La situazione italiana e gli scontri in Europa, pur sottoposti alla censura del regime, allontanarono sempre più la popolazione dalla illusione della vittoria. L’idea che qualche migliaio di morti avrebbero portato l’Italia al tavolo delle grandi potenze, aveva perso ogni significato. Le privazioni e la paura pensavano in piccolo: sopravvivere e sfamarsi.
Nel marzo del quarantatre un'ondata di scioperi, sotto la direzione anche di militanti anti-fascisti, investi l'Italia del nord, in particolare Torino.
La crisi economica dovuta alla guerra che si trascinava da anni, aveva messo in crisi il sistema produttivo nazionale.

La mattina del 19 luglio del millenovecentoquarantatre la donna, con la creatura di quattro mesi in braccio, si avviò verso il quartiere San Lorenzo.
Sul tram cominciò ad allattarlo al seno. Il piccolo piangeva. Si addormentò dopo alcune poppate di latte caldo.
La donna si ricompose, continuando a cullarlo. Una nenia appena percettibile si accompagnava ai movimenti del corpo. Era un canto sussurrato nelle orecchie del figlioletto, una cantilena di accoglienza e protezione.
I suoi occhi controllavano tutto: dal bambino in grembo allo sferragliare del tram; dalla strada agli altri viaggiatori; dalle nuvole bianche ai passanti. Lo sguardo scorreva, imparava. Cercava possibilità, occasioni e briciole di speranza, rimanendo fiero ed impaurito. Si diceva che la debolezza non portasse pane, ma che di forza si poteva anche morire. Lei si nutriva della sola forza della disperazione, che era più potente di qualsiasi debolezza.
Alle dieci e trentacinque scese dal tram, nei pressi dello scalo di San Lorenzo. Si accodò a un fila di persone dirette verso il piazzale. Erano poche, troppo poche per l’arrivo dei pacchi alimentari. Ebbe un fremito, solo un accenno, poi coprì bene il figlio, che ancora dormiva. Lo spostò tra le braccia, per bilanciarsi meglio.
Decise di aspettare. Passati dieci minuti, con quel fardello sempre più pesante, si mosse verso lo scalo.
Prima della galleria, poco distante dai binari, viveva una sua cugina di secondo grado. Il marito faceva la borsa nera. Non avevano figli. La cugina sarebbe stata contenta di prendere in braccio il piccolo per coccolarlo, e l’avrebbe aiutata, come altre volte. La donna, come sempre, si sarebbe sdebitata facendo il bucato, stirando e passando lo straccio. Ma non c’era tempo.
Alle dieci e cinquantacinque la piazza si animò di persone.
Pensò che fossero arrivati i pacchi dono. Sorrise dicendo al suo piccolo fagotto che tutto andava bene e baciandolo ripetutamente.
Poi rimase impietrita: tutta quella gente non andava da una parte precisa, ma correva urlando verso ogni direzione.
Le campane della chiesa batterono le undici, quando senti il proprio cuore gonfiarsi di paura. Non riusciva a muoversi. Strinse ancora più forte il figlio.
Le sirene percuotevano l’aria, lamentose. Corse verso la galleria, seguendo la folla.
Il rumore degli aerei cominciò a riempire ogni suo più piccolo pensiero.
Entrò nel tunnel, spintonando chiunque le sbarrasse la strada.
Alle undici un minuto e quarantanove secondi, si accovacciò in terra, inarcando il corpo, come uno scudo per il proprio cucciolo.

Erano le undici un minuto e cinquanta secondi, quando il primo passaggio di otto bombe toccò terra.
Il quartiere venne investito in pieno.
Le maggiori devastazioni furono concentrate nel quadrilatero formato dai piazzali Sisto V, San Lorenzo, Porta Maggiore e del Verano.
Un intero quartiere di Roma fu raso al suolo. Quasi 3.000 i morti accertati e almeno 6.000 i feriti, causati dagli ordigni lanciati dai bombardieri anglo-americani. Fu colpita, in parte, la stazione ferroviaria, obiettivo strategico, ma vennero distrutte, contemporaneamente, numerose case civili.
Dalle rovine di San Lorenzo partì il bombardamento della città.
*ROMA NON SARA’ MAI BOMBARDATA!*
*Né Roma, né Firenze, né Venezia, né Assisi*
Queste furono le assicurazioni degli anglo-americani, proprio mentre Eisenhower ordinava: *Se per salvare un solo soldato americano dovete buttare giù il Colosseo,…. buttatelo giù!!*
La tecnica di distruggere le città, per demoralizzare le popolazioni, ebbe il suo apice a Dresda, nel febbraio del 45 e a Hiroshina nell’agosto dello stesso anno. Non ha più smesso.
Pio XII, il papa che accoglierà e fornirà di passaporti per il sud america tutti i nazifascisti che si rifugiavano in S.Pietro, (previa secondo battesimo), si presentò nel quartiere distrutto di San Lorenzo, per dare un aiuto morale ma anche pratico: mille lire a chi aveva bisogno.

La galleria tremava. Urla e lamenti facevano da contrappunto tra le pause delle esplosioni.
Pezzi di calcinaccio piovvero sui capelli raccolti della donna. Mise le mani attorno al volto del figlio, a protezione.
Le persone, a gruppi di due o tre, si stringevano in un unico corpo.
Lei strinse ancora di più il piccolo. Il suo pianto era la manifestazione del suo stesso muto terrore. Era un abisso, dove l’orrore si specchiava di occhi in occhi, di volto in volto, ma lei non poteva farsi ingoiare da quel buio.
Scansò scialle, camicione e maglia e offrì il seno al suo pianto. Lo allattò per più di due ore, fino a dopo le tredici.
Le esplosioni diminuirono d’intensità, quasi all’improvviso.
Il bambino riprese a piangere. Lei pensò di uscire e fuggire, ma le sirene continuavano, laceranti.
In fila, col coraggio della paura, i rifugiati cominciarono a uscire dalla galleria. I bombardamenti erano ripresi, più lontani.
Ora avevano l’incedere di un eco che scavava profondo, dissolvendosi rapidamente su se stesso.
Appena fuori dal tunnel, confusa tra le gente che si guardava attorno, la donna fu presa dal panico:
il piccolo sembrava non respirare. Il volto era paonazzo e numerose bolle sferoidali si andavano formando su ogni piega del suo viso. La disperazione le diede un’ultima scossa. Cominciò a battergli la piccola schiena, chiamandolo per nome, finché non prese a singhiozzare. Lo pose in terra, sopra il proprio scialle. Poi, in ginocchio, prese a svestirlo, offrendogli la propria voce e le proprie mani. Il corpo della creatura era interamente ricoperto di macchie rosse, di vario spessore.
La donna sentì un urlo crescerle dentro, ma non poteva, non ora. Ingoiò la paura e cominciò a chiedere aiuto, imperiosamente, quasi un comando.
Alcune persone si avvicinarono, investendola di parole: …..è stato il latte malato…..è lo sfogo di Sant’Antonio…..è una scarica di istamine, disse un uomo in camice bianco…. dobbiamo portarlo in ospedale, subito….
I pomfi erano di qualche millimetro e diffusi per tutto il corpo. Alcuni si presentavano chiari nella parte centrale.
Uomini e donne, neanche l’orrore era riuscito a privarli della pietas, li caricarono su una delle autoambulanze appena arrivate.
Partirono dopo qualche minuto, strette nel sangue e nei brandelli di carne dei feriti. Arrivarono all’ospedale Fatebenefratelli, sull’ Isola Tiberina, nei pressi dalla loro casa.
Le infermiere e un giovane medico si presero cura del bambino.

Alle quindici gli echi della morte tornarono, mentre le Lattifere terminavano le consegne.
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Giuseppe Buscemi
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MessaggioTitolo: Re: Marcello Devenuti (flussodiparole)   Marcello Devenuti (flussodiparole) Icon_minitime15/7/2009, 20:33

OK, voto la seconda parte Very Happy
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Nuccio Pepe
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MessaggioTitolo: Re: Marcello Devenuti (flussodiparole)   Marcello Devenuti (flussodiparole) Icon_minitime16/7/2009, 11:28

Mi associo, anch'io voto " LE STRADE DELLE LATTIFERE - II^ parte ".
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MessaggioTitolo: Re: Marcello Devenuti (flussodiparole)   Marcello Devenuti (flussodiparole) Icon_minitime16/7/2009, 11:29

Azz .. dimenticavo, devo votare in MP ! faccio subito !
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MessaggioTitolo: Re: Marcello Devenuti (flussodiparole)   Marcello Devenuti (flussodiparole) Icon_minitime17/7/2009, 18:54

Citazione :
un ubriaco che ondivagava
bello
l.
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Daniela Micheli
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Daniela Micheli


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MessaggioTitolo: Re: Marcello Devenuti (flussodiparole)   Marcello Devenuti (flussodiparole) Icon_minitime18/7/2009, 20:24

Eccomi qua, Marcello.
Questo tuo racconto è il ritratto di un momento storico (forse, perdonami, in alcune parti anche troppo didascalico) e ritengo sia la conferma ad alcune perplessità lette circa l'argomento.
Grazie della lettura, ricordavo questa pagina diversa, ma è passato tanto tempo da allora.
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MessaggioTitolo: Re: Marcello Devenuti (flussodiparole)   Marcello Devenuti (flussodiparole) Icon_minitime3/9/2009, 08:53

Letto
piaciuto
vado a votare
buona giornata !
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MessaggioTitolo: Re: Marcello Devenuti (flussodiparole)   Marcello Devenuti (flussodiparole) Icon_minitime

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