Mattoni d’argilla rossi, che il tempo e il calpestio domenicale avevano reso neri e con ondulamenti sulla superficie, dai solchi slargati tra l’uno e l’altro per un progressivo ritrarsi di ciascuno d’essi, ad accogliere negli interstizi che perciò s'espandevano, tutta la lordura delle anime penitenti, ginocchioni su quel piano freddo, caldo, ruvido, levigato, a seconda dei peccati degli uomini e delle stagioni del cielo.
Sui mattoni, le suole arrovesciate delle scarpe, che mostravano le loro debolezze al mondo: assottigliamenti vari o valghi, buchi nel primo strato della suola, sopratacchi fatti e rifatti. Inginocchiati a chiedere perdono, alzavano gli occhi a -20° dalla cervicale, giusto per intravvedere nel campo visivo periferico, gli orli incombenti delle vesti dei santi ben allocati nelle curve nicchie, a discutere tra loro dei tomi che reggevano tenaci, da secoli e per i secoli. Davanti ad essi, infilato in sostegni di ferro nero, il primo barlume della divinità tremolava in cima alle candele bianche dai grappoli di cera proliferati lungo il loro stelo, emulando la luce della fede.
Ad andare più su, s’incontrava l’innesto delle colonne con le arcate e lì, a raccordo trasversale sopra il transetto, un tripudio di angeli bambini tra cirri di stucco rapiva l’anima dalla nuda terra e la trascinava verso aerei vortici barocchi, che però della terra serbavano ancora tutta la severa fissità materica.
Solo osando alzare ancora lo sguardo, si focalizzava il rosone variopinto da cui passava nettissimo il fascio solare che lì vi si mostrava nelle sue più smaglianti variazioni cromatiche ma conservandosi unico e indivisibile poi si riuniva in un pulviscolo dorato ed oscillante che attraversava lo spazio e colpiva il pavimento, incanto caleidoscopico secolare per adulti dal cuore sempre infante, incolpevole nella solitudine della venuta al mondo.
Allora sì, lì sì che un nuovo respiro dilatava polmoni e cuore. Lì sì, che non mancava l’aria per volare.