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 Bruno Galluccio - VERTICALI

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Luca Curatoli
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MessaggioTitolo: Bruno Galluccio - VERTICALI   Bruno Galluccio  - VERTICALI Icon_minitime13/10/2009, 12:30

Bruno Galluccio
VERTICALI


Ecco c'è l'acqua
che scorre verso il suono limpido
e una luna aperta dispiega la sua diffusione.

Il calendario dice che è inverno
ma che ci siano piccole foglie è un fatto
e gli odori si adeguano alla volta celeste.

La città è circa tre chilometri distante
tangenziale verso est uscita centro
le luci vanno, attratte da altre luci.

Il mondo si presenta a noi
che acconsentiamo a deporre il coltello,
a riconoscere la notte
come pura assenza di sole.

In sacche confinanti più in basso
germinazioni di caos.





Una chiesa rassegnata
corpo di abbandono alla campagna.
Il tempo l'ha allontanata dagli uomini,
soltanto il sole si inginocchia
di fronte a mezzogiorno
depone un bacio sul volto screpolato.

Un uomo rosso in viso passa lì per caso
lascia cadere un cenno di preghiera
ripescata dall'infanzia.





Ci scaldiamo ai racconti
piantati nelle grotte
la notte non ha scampo
e in questa terra
che pure è benedetta
e dura e muta
i nostri figli nasceranno
come noi nascemmo - forse -
e cadranno trafitti se si vuole in alto,
già lo sappiamo
senza bisogno di esserci in quel tempo.

Ma adesso via!
Si avvertono soltanto pochi scoppi
sempre più lontani
- ed è la nostra miseria che riesce
a farci amare questa deriva -
quasi potremmo chiudere un occhio a turno.
Sì sempre più lontani, li senti?
E torniamo allora a riconoscerci le ossa.
Fa male il corpo
l'averlo semplicemente.





il cielo è ancora una strada in costruzione
perciò volgiamo attenzione alla terra
alle scarpe che rifulgono
nel dominio dell'asfalto

lo splendore dei panni è la nostra
tessitura del mondo
la corsa del corpo il filtro della maccanica celeste
nel nostro breve raggio

così ripetiamo a memoria
la svista dei pini
l'ancoraggio lunare





scorre l'umidità densa di treno notturno
a quest'ora ogni sottrazione solitudine ci assale
una macchia che concentra tutti gli abbandoni

scorrono le stazioni di lumi tramortiti
verso i loro apparentamenti
scendono i frammenti di libri
nel dormiveglia che confonde le voci roche
e vaghe dei viaggiatori

lo spazio esterno domina senza geometria
ogni distanza viene frantumata dall'interno

sono luci stanche e stanze dalle volte basse
corpi che si rinchiudono tetti di lentezza
sete di ciò che d'altra parte
compare per un attimo





rischio di perdere poco a poco
le orme di quelli che sono andati
rapinati da eventi normali come le bufere e il sole

anche la voce si fa più bianca e piatta
nella rotazione del registratore
insieme al colpo di tosse
e all'inciampo delle risate

eppure c'era voluta una vita





la più vicina risonanza del corpo
e il furioso rovistare del treno
dentro le viscere e sulle coste dei valichi

le viscere sono indifese anche per colui che assiste
e il tremore che incalza placa la sete

avevano raccontato storie di armi
i patteggiamenti maschere andate
in filigrana per maturare dalla sponda opposta

il navigatore indica la strada di tutti i ritorni
le vecchie serrano i portoni
l'affacciarsi trasecolato dalle tendine

non è più marzo
la strada perfino troppo larga
nella tranquillità del cielo
i satelliti vegliano sulla nostra sorte





Non ho sonno. Non so pregare.
Accolgo la solitudine di ogni singola onda.
Questa casa ha guscio di rapina
e tentazione lunare. Non ha scale
da scendere, sono nella terra friabile
la rena scardinata. Mi lascio indietro.

Le orecchie sono pietre, i vestiboli
le vere scale dove ci si affolla. Se qualcuno dicesse
che c'è un domani distinto
da questa impronta lo sentirei menzogna.
Le solititudini sfilano sul bagnasciuga.

Non ho sonno. Conto l'unicità delle conchiglie.
I talloni scavano sotto la colonna
potrei farmi pantano e sonda che pesca
la conchiglia che accoglie tutte le acque.





Bruno Galluccio è nato a Napoli. Laureato in fisica, ha lavorato in un'azienda tecnologica occupandosi di telecomunicazioni e sistemi spaziali. Questo è il suo primo libro.
(Dal risvolto di copertina del libro VERTICALI edito dalla Einaudi)
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MessaggioTitolo: Re: Bruno Galluccio - VERTICALI   Bruno Galluccio  - VERTICALI Icon_minitime13/10/2009, 12:31

N.B. Una breve nota a margine - si fa per dire perché si scrive sempre più del necessario - tanto per non dare la sensazione a chi ha la pazienza di leggere, di aver fatto il copiaincolla con parole non mie. E’ strano. Questo libricino bianco sporco, con le tracce di chissà quale fondo di magazzino, questa pubblicazione scontata del prezzo per venire alla luce, mi è sembrato mio fin dal titolo. Due mesi fa neanche sapevo della sua esistenza. Leggo in fondo alle pagine la data di stampa: febbraio 2009. Potrei averlo scritto con le mie mani e con i miei sciagurati giorni. Né più né meno. Strana sensazione riconoscersi nelle parole degli altri. Riconosco che questa affermazione è tanto ingenua quanto ambigua. Io non avrei mai potuto scrivere come Bruno Galluccio. Come un suo simile, un abitante della sua stessa strada, non si sognerebbe di affermare di condurre la stessa esistenza del suo vicino di casa. Il fatto è che quando incontri simili espressioni, così simili alle mie, quelle che magari sono ancora poco chiare per me, finisco per riconoscerle; prima ancora di essere e non è detto che lo diventino, immagini familiari, valori condivisi... rappresentano quei particolari che sempre si è attraversato nella propria vita. Magari con la solita disattenzione e così ora, leggendoli e quindi ripescandoli dentro di me attraverso l’altro, è come se si aprisse un album dei ricordi perduti: mi appaiono insolitamente chiari. Le parole dell'altro sono i miei sguardi opachi, assieme ai suoi; i miei silenzi, perfino colpevoli. Non che l'altro lo si possa ragionevolmente pensare sempre intento nello stato di scriversi con la segreta fiducia di riuscire a parlare all'altro, fosse solo un palo della luce con una qualche parvenza umana. Chi scrive parla anche con i muri e chi scrive poesia, in particolare, trasforma quell'impedimento in un volano per la fantasia. Le poesie ci sembrano cartoline venute da strani viaggi infiniti. Sappiamo tutti, che nemmeno il poeta può viaggiare all'infinito come lui sente di desiderare. Eppure ha viaggiato. Anche se ce lo rivela con espedienti per rinnovare quell’attimo fragrante. Quando il gioco funziona noi ci crediamo. Prima ancora di rendercene conto.

Un testo che mi prende diventa casa. Potrebbe diventarlo; un luogo da abitare nel quale non ci vorrei più stare come visitatore. Eppure certe case altrui, quelle dove più evidente è il lavoro di scavo, di minuziosa strategia, dove infine la persona si rintana, sono ventri di balena e grotte sacre o sconsacrate, espugnabili se non con l'apparente gesto distratto delle lettura. E' come se leggendole, queste difese dall'apparenza di palmi aperti, noi penetrassimo in un luogo senza più sapere se si stia dentro o fuori. Così entriamo in treni, in metafore di corpi altrui, mentre la nebbia e le luci che cercano di penetrarla, sembrano uguali per tutti. Non è così. Non basta affermare di scrivere e di scrivere una poesia. Come non basta leggere.

Disse qualcuno per sempre, anche se non vorrei riportare il suo nome, perché qui citarlo non avrebbe nessuna importanza; non sarebbe di nessuno aiuto per chi legge. Disse qualcuno che “Chi legge se stesso, ha un’altra esistenza, fuori dallo specchio”. Cosa significhi per me, impegnato in questo lavoro di lettura e scrittura e, prese singolarmente, nessuna delle due cose.
Le parole dell’altro non sono mai le proprie parole, mi dico, pure se in una situazione estrema ci si dovesse trovare a non parlare mai. Le parole nascono da un dentro che solo un atto di violenza può determinare. Anche questa ha bisogno di esercizio, è vero. Trovare uno sbocco possibile all’esercizio della violenza che pure le parole compiono, è già di per se, immenso e spossante lavoro. Il compimento perfetto è quando queste, le parole che sembrano parlarsi addosso - riflesse da un mondo che non sembra mai nostro - si innervano e s’innestano nella nostra carne, che noi, per affetto e una certa larvata codardia allenata nel quotidiano, chiamiamo vita. Con tutti gli annessi della grande famiglia esistente su questa terra e sotto questo cielo.

Ogni scrittura mi sembra diario di una solitudine e poco importa fino a quando cercata oppure esorcizzata. Non posso vedere tutto e spesso mi viene da chiudere gli occhi. In fondo leggere, ma anche scrivere, è un modo sottile per non essere costretto ad aprirli su una realtà che è sequela assurda e interminabile di scatti, di fotografie dove l’affettività, quello che conta davvero per noi, continuamente sfugge, annaspa, invoca aiuto nella palude. Ci sono dei versi come questi che mi fanno piangere e davvero non vorrei dare la sensazione di colui che si piange addosso per puro compiacimento. Ma come e perché dare la sensazione penosa e nota a tutti, di quel sapore sapido frammisto a muco, di quel pulsare insensato delle tempie. Ecco: quando io faccio così è come se mi nascondessi, mi riponessi nel chiuso del mio corpo che chiuso non è. Come sarebbe umano farsi prendere la testa dolorante tra le mani dell’altro. Le paterne mani dove si è finalmente e stranamente a casa. Ma noi abbiamo l’obbligo e il diritto di diventare genitori a nostra volta. Dobbiamo generare… In qualsiasi forma ci dobbiamo rigenerare, che non è detto sia quella del poeta. Più delle altre di Bruno Galluccio, rileggo questa perchè mi punge


non si confonde con lo specchio
allontana la pietra aguzza dalla tempia

lì è la pietra qui sono gli occhi
di fianco il pane maturato

e siedono così nella scarsa luce
come persone che parlano
e lui che scorre e che resta

disegna il cammino guardando gli inverni peggiori
e si rifugia nelle mani buie



Ricopiando a mano questi testi - poesia è troppo riduttivo di un mondo che ha perso i margini, i netti contorni, ora confini slabbrati - rileggevo, un po' come a strozzare in gola questa domanda: "Dove sei", dove sei tu che scrivi e hai scritto per sempre per il mio cuore. E, naturalmente, dove sono io. Ma invece di domandare e di attendere una risposta - cosa inverosimile a sperarla - continuo a leggere e continuo a scrivere, come se invece di attaccarmi ad una cosa che è mia fin nell'intimo, mi attaccassi alle parole. Aggrapparsi alle parole dell’altro poi, rappresenta per me una doppia assurdità. Scontata con quel bisogno di confrontarsi con il diverso, fosse solo un incidente, un viaggio non voluto, uno straniero che ti sbarra la strada. E tu non puoi evitare il confronto. Magari scoprendo non senza dolore, che il vero straniero da sempre sei stato tu.
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