Don Bruno detto ‘o Priore

Campane elettroniche, le chiama Don Bruno ‘o priore.
Dopo due settimane dal suo arrivo a Rocca Felice, sistemò quattro altoparlanti in cima al campanile al posto delle vecchie campane.

- Suonano alla stessa ora senza disturbare Ernestino che tiene l’artrite!- diceva a chi si lamentava di quello strano rumore che arrivava dal campanile.

Stamattina ‘o Priore mi ha fatto chiamare.

- È urgente – Ha detto a Ferdinando Quagliulo, ma io non ci bado, non per niente mi chiamano il posapiano, e poi oggi non è giornata, mi sento una mappina, senza forze, senza energia.

- Vox populi, vox Dei. – Ha detto di riferire Don Bruno. E il povero Ferdinando ci ha messo un’ora, per ricordare le parole precise; ma chissà che avrà voluto dire. Benedetto uomo… cammino verso la canonica e me lo chiedo da ore, ma ‘o priore ne inventa sempre una ed io, mi devo rompere la capa per capire che cosa vuole dire.

Però da quando è arrivato a Rocca Felice, la chiesa si è ripopolata.
Adesso, all’ora della messa, lo stereo suona a distesa, e fino a quando la gente non arriva, lui aspetta. Braccia conserte sull’altare, in bocca la solita frase: - Venite ad oremus...
E se qualcuno lamenta che in chiesa ci vanno solo quelli che non tengono niente da fare, o quelli che tengono l’abitudine, lui li guarda storti e ripete: - Omnia munda mundis, tutto è puro per i puri, - pare significhi.

Quando è ora di dire la messa, Don Bruno sembra fare l’appello. Alza gli occhiali sulla fronte, stringe gli occhi piccoli come fessure e con attenzione guarda tra i banchi della chiesa; da quelli vuoti capisce chi è assente; ma non si sgomenta, se lo segna dentro la capa e la sera stessa con una scusa li va a trovare per portargli la parola di Dio.

Ma da quando c’è Don Bruno a Rocca Felice, nessuno si lamenta più delle campane.
Adesso che c’è lui, suonano in orario, la messa è un appuntamento preciso, in canonica c’è sempre un prete per chiunque abbia bisogno d’aiuto.

Come dice ‘o priore, era tempo di cambiamenti: - omnia mutantur, - disse convinto appena arrivato.
E così, la mattina, alle sette precise, si comincia col fruscio del nastro che gira, e poi dopo, col suono delle campane a distesa.

Don Bruno ‘o priore, come lo chiamano a Rocca, vive in canonica accanto alla chiesa di San Rocco, che è situata al centro del paese. Tra vicoli, case e stradine, dopo una bella salita di mezz’ora, ci si arriva, ma solo camminando spedito.
La chiesa principale di Rocca è una chiesa barocca, ce la invidiano tutti per le sue tre arcate e quel campanile di pietra che guarda come un soldato la valle del fiume Sele.

Quando sbuco dal dietro al vicolo strascinando la gamba, Don Bruno mi vede arrivare; aìza la capa, saluta con la mano, poi scuote la testa e sorride.

- Lupus in fabula! – Dice allargando le braccia. – Arrivasti ah? - Aggiunge roteando la mano per sottolineare il ritardo.

- Don Brù, - dico io, - … con me non dovete tenere fretta! – aggiungo fingendo di essere offeso -Ma che mi dovete dire? – Chiedo, ancora incerto sul significato della frase che Ferdinando mi ha riferito.

- Dictum factum, caro Filiberto, detto, fatto, siediti che ti spiego. - Dice lui.

- Tu non me la racconti giusta... – Aggiunge osservando il mio sguardo contrariato.

Don Bruno stamattina non veste panni da prete, ma da muratore. Ripara un muretto di pietra nel giardino della canonica. Sudato, senza camicia, colletto da prete slacciato e faccia tinta di nero come un ragazzino, mi accoglie con una pacca sulla spalla, e mentre mi accomodo sul muretto massaggiando la gamba, con gli occhi gli indico il piede scardellato, per giustificare il mio ritardo. Ma lui non abbocca; fa roteare la mano e aggiunge:

- Doctum doces … - vuoi insegnare a chi sa già? – Chiede. – insegni a un ladro a rubare? – Aggiunge divertito.

Don Bruno tiene cinquant’anni e nessuno sa dire dove ha imparato a parlare in latino. Si è fatto prete da poco e prima di trovare la fede, ha fatto cento mestieri; così qui a Rocca Felice, quando hanno bisogno di lui, per l’estrema unzione o un lavoretto in casa, lui non si tira mai indietro.
Non ha fatto il seminario e nemmeno la scuola per preti: la sua fede è tardiva, e c’è chi dice che si è fatto prete per una delusione.
Siciliano di origine, basso, bruno, possente; occhi profondi sotto gli occhiali, non usa mai la tonaca, porta scarpe da ginnastica e colletto da prete.
Ha naso aquilino, un cesto di riccioli neri che non pettina mai, la faccia squadrata e mani grandi come portoni. Don Bruno è un prete d’azione e poche parole, e se anche si incaglia qualche volta sull’altare, a Rocca Felice, tutti gli vogliono bene.

- La parola di Dio va portata casa per casa. – Ripete fino a diventare scucciante.

- Nemo propheta in patria – Aggiunge quando qualcuno chiede perché non torna a predicare nella sua terra, a Modica, in Sicilia.

Certe volte puzza di vino, altre ha un pallore che nasconde fatica, ha un vocione che scuote pareti e coscienze, che è una difesa contro la timidezza che non riesce a nascondere neanche facendo il burbero.

- … Melius abundare quam deficere, - dice a chi si lamenta che ripete sempre le stesse cose. - E dove non arriva la fede, - aggiunge convinto - arriva un bicchiere di vino e una mano d’aiuto.

E così, quando dice la messa, nessuno più si chiede se balla per l’emozione o perché ha bevuto troppo vino o caffè.

Lo guardo parlare, gesticolare, sudare; sta usando la pala come un martello.
In ogni cosa Don Bruno mette passione e energia, per questo riesce a fare tante cose insieme.
Don Bruno è un prete che va sempre di fretta. - la vita non va mai sprecata. – Dice ad occhi bassi, nascondendo qualche pena.

Stamattina sembra avere un’espressione indecisa, uno sguardo quasi malinconico, un velo di tristezza che copre i suoi occhi profondi.
Lo guardo asciugarsi la fronte, si struscia e gli resta attaccata una striscia nera sulla faccia, che accentua il livido color melanzana che tiene sotto l’occhio destro.
Ho l’aria interrogativa, mi gratto la testa sotto il cappello, ma lui minimizza, fa cenno con la testa che non è niente di importante e continua a parlare.

- Filibè, tu non sai tenere un cecio in bocca. – Dice ad un certo punto.- A chi lo hai detto delle lettere di Tetta D’Amico? – Chiede deciso.

Lo guardo con gli occhi spalancati, lui guarda me come fossi reticente ed io più urtato aggiungo:

- Don Brù, ma che dite? Di che parlate? Faciteme il favore nun pazziate, che oggi non è giornata. Quel fetentone di Ferdinando è pure malato e ho dovuto fare il giro al posto suo. Ditemi … che avrei fatto?

La luce del tramonto sembra accentuare il livido scuro che tiene sulla faccia. Cerco di cambiare discorso e domando: - … ma che avete fatto? - E lui, toccandosi la melanzana sotto l’occhio destro, con le dita, mi spiega.

- Ora et labora, Filiberto mio. Lo diceva pure San Benedetto. Quelli erano in due, extracomunitari; mi dovevano fare un lavoretto in canonica in cambio di vitto e alloggio. E ora et labora, dico io. E così hanno mangiato e dormito, le povere anime sperdute, poi per ringraziarmi, mi hanno riempito di mazzate, rubato la cassetta delle elemosine e buttato a terra il muretto del giardino della canonica.

Lo guardo con un sorriso forzato, certe volte mi chiedo come fa a essere così calmo, non è mai arrabbiato, ma oggi mi pare deluso. Guarda lontano oltre la chiesa, come se i pensieri corressero troppo veloci per lui per poterli acchiappare.

La giornata è quasi finita; parlare con Don Bruno è rilassante.
Sposto lo sguardo oltre le sue spalle muscolose, oltre i suoi occhi sinceri, oltre i pensieri e la fatica che gli occhi non possono nascondere.
In controluce, la chiesa cambia colore; c’è profumo di terra rimossa nell’aria, di giorni di festa, di ragù appena fatto. Forse Rosina, la perpetua che abita accanto alla canonica, prepara il pranzo per la domenica di Don Bruno.
La sagoma scura del campanile si allunga per proteggere il lavoro di Don Bruno.
Mi siedo accaldato accanto a lui, l’odore di sudore penetra nelle narici mentre in silenzio ascolto la sua ramanzina. Ma non me la prendo, non mi preoccupo, anzi ripeto a me stesso che il tempo è galantuomo, e Don Bruno capirà che non ho deluso la fiducia di Tetta D’Amico.

- Non ho detto una parola. – Dico alla fine, con la mano sul cuore.

E Don Bruno, con un buffetto, sorride. Vuole che gli faccia un favore, raccontarmi un segreto, parlare a un amico di una cosa che non devo confidare a nessuno.

- Filibè, ma tu lo sai chi ha scritto le lettere a Tetta D’Amico?
- Le lettere… - Rispondo pesando le parole per non tradire la fiducia della Signorina D’Amico.

Don Bruno capisce l’imbarazzo, mi guarda sereno, e poi incomincia a parlare spedito.

- La signorina D’amico è vissuta a Napoli. – Dice Don Bruno.
- Certo, ha fatto l’università; lo sanno tutti qui a Rocca. – Rispondo io.
- E allora sai anche che si doveva sposare con uno che aveva conosciuto lì? Aggiunge ‘o priore
- No, questo non lo sapevo. – dico io cercando di non tradire la fiducia di Tetta D’Amico.
- Ma l’amico suo era sposato e la D’amico, donna di principi, lo lasciò appena lo seppe. Lui era sparito, fino a quando, come sai, sono arrivate le lettere… E ora la signorina Tetta lo vuole ritrovare. Ha chiesto il mio aiuto.
- Don Brù, ma io che ci azzecco?
- Che ci azzecchi, che ci azzecchi. – Dice lui. - Non vuoi aiutare la signorina Tetta D’Amico? - Aggiunge stupito.

E così annuisco.
Don Bruno sa quanto sono affezionato alla signorina D’Amico; sa che farò quello che posso per lei e così m’appoggia la mano sulla spalla, guarda nel vuoto, e comincia a parlare come fosse da solo.

Don Bruno ora neanche mi vede. Insegue un ricordo lontano, pensieri mai dissolti, amori forse mai cominciati, eppure mai finiti. Forse pensa a qualcosa che non dice, è il pensiero di un attimo, un piccolo bagliore che si spegne negli occhi per nascondere una malinconia forse mai quietata.

Poi scuote la testa, mi guarda negli occhi convinto e mi dice:

- Veritas filia temporis, Filibè, ricorda: la verità si conosce solo col tempo. Domani, amico mio, domani partirai per Napoli con la mia benedizione e quella di nostro Signore… ma ricorda sempre: Veritas filia temporis...!