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 renzo mio padre

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eugen signori
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eugen signori


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MessaggioTitolo: renzo mio padre   renzo mio padre Icon_minitime7/4/2010, 18:23

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RENZO, MIO PADRE

Non conosco l’infanzia di mio padre, ma la immagino simile a quella di altri ragazzi di famiglia benestante, cavallo e calessino, collegio raffinato a Bassano, educazione veramente cattolica come d’uso nelle campagne del Veneto da tempo immemorabile.
Siamo negli anni novanta, quelli ottocento, naturalmente. Era accaduto un fatto gravissimo in famiglia. Era morto Eugenio, mio nonno, lasciando, oltre a mio padre, le sorelline Maria ed Elisa, oltre alla moglie Matilde, donna quanto mai “timorata”, essere sensibile e nobile d’animo. Tutte doti eccelse per una moglie affettuosa e casalinga, ma meno per una vedova, con in più tre figli a carico. Va da sè che nel giro di pochi anni il gruzzolo scomparve come neve al sole di marzo, vuoi a causa di crediti accuratamente dimenticati, vuoi per la insistente presenza di alcuni avvoltoi sulle acque del Brenta. La soluzione finale fu la “fuga con fagotto” e una solida fede cristiana nella provvidenza. Unica eccezione fu mio padre, che da quel momento cessò di contare sulla provvidenza e preferì affidarsi alle doti del suo cervello e della sua volontà.
Aveva quindici anni quando mio padre lasciò Campolongo, paesino incastrato tra il Grappa e l’altopiano di Asiago, laddove il Brenta esce dalla Valsugana, si dilata in pianura con un largo letto ghiaioso e prosegue pigro verso il mare. Possiamo immaginare il giovane collegiale, educato secondo i sacri crismi, che osserva dal finestrino del treno le campagne che scorrono veloci sotto i suoi occhi preoccupati. Sta pensando a Milano, la grande città che lo attende come un immenso punto interrogativo. La successione degli eventi negli anni che seguono e fino all’incontro con mia madre è piuttosto nebulosa. Dalla nebbia del passato, però, emergono vive alcune immagini lampo, quadretti scaturiti dal ricordo dei racconti di famiglia.
Il giovane Renzo è chino su un foglio. E’ mezzanotte. Siamo da un marmorista del cimitero di Musocco, il quale gli ha commissionato il progetto di una tomba di famiglia. E’ là, che traccia nero su bianco tra lapidi e colonne spezzate. Oscillano le fiamme delle candele. Le ombre danzano sui muri.
Il giovane Renzo sta mangiando un piatto di fagioli lessati. Si trova all’albergo di via Pietro Colletta, una specie di ospizio, tra ladri e barboni. Si coricherà assieme alle cimici nella squallida cuccetta. In compenso potrà spedire a sua madre le cinque lire risparmiate nella settimana.
Il giovane Renzo, accolto come istitutore nella casa di un bifolco ricchissimo, viene invitato come massimo onore a servire a tavola i signori padroni, con tanto di guanti bianchi.
Il giovane Renzo, sul lago di Como, si innamora della Dirce, e scrive poesie.
Il giovane Renzo, stanco di mangiare fagioli e uova al burro, chiama a Milano la famiglia, anzi, “le donne”, le quali nel frattempo erano vissute a Piovene, ove Maria sgobbava sui telai del lanificio, le altre pregavano ed erano tristi di professione.
Ora al giovane Renzo nonancoramiopadre accade un fatto straordinario, di quelli che fanno pensare al futuro come ad una ragnatela di eventi già accaduti, che noi percorriamo ciechi, andando incontro al tempo. Siamo su di un tram di Milano. Salgono due donne. Il giovane impallidisce inchiodato al sedile. Le due donne scendono. Il giovane le segue e infila un biglietto da visita nelle mani di Emilia, la più bella, osserva dove abitano e scompare. Il seguito è ovvio. Meno ovvio è il fatto che un amore a prima vista possa durare settant’anni sempre immutato. Osservavo spesso mio padre a letto, a novant’anni, accoccolato sul seno di mia madre, la quale gli posava la mano sul capo pelato, teneramente. Il matrimonio fu celebrato, mi sembra, nel 1912, non senza difficoltà da ambo le famiglie. Era logico. Da parte di nonna Isabella c’era come obiezione la disperata condizione economica del povero Renzo con mamma e sorelle a carico. Da parte di nonna Matilde c’era il terrore che il figlio, perdutamente invaghitosi di donna lombarda, se la squagliasse alla chetichella, lasciando le povere donne alla preghiera. Si racconta che mio padre, gettandosi in ginocchio ai piedi di nonna Isabella, la supplicasse di non togliergli il suo amore, perchè senza la sua Emilia non avrebbe potuto sopravvivere. Dicono i presenti che in quella strana posizione si potevano notare due grossi buchi nei calzini, il che toglieva un pò di patos alla situazione, altrimenti drammatica. Tutto andò per il meglio, come i fatti poi dimostrarono. Quella che seguì fu una lunga luna di miele, finchè la stupidità e la ferocia degli uomini non posero termine all’idillio. Mio padre fu arruolato in fanteria e partì per il fronte senza poter vedere la nascita della piccola Matilde, dal nome della nonna. Nacque male, debilitata dai digiuni e dalle ansie della madre, la quale sgobbava giorno e notte cucendo mutande per i militari, perchè doveva pur rimediare la minestra per se e per gli altri, aiutata dalla povera Maria natapersoffrire.
Vediamo intanto ai margini dell’Isonzo un uomo che corre all’assalto scavalcando cadaveri e pozzanghere, sparando contro uomini come lui. Questo è mio padre, uomo mite con gli occhi chiari. Quel fucile nelle sue mani sta proprio male, ma tanto fa, è la guerra, come dicono i bravi patrioti. E poi lui è innamorato della moglie, e le scrive letterine delicate con la sua bellissima scrittura barocca. Quelle lettere saranno sempre conservate da mia madre, che le recitava a memoria in ogni circostanza adeguata, con enfasi proporzionale ai ghirigori che abbellivano la calligrafia del suo Renzo. E, assieme alla lettera, violette di prato. Ma la guerra si metteva male. Sull’altopiano di Asiago una violentissima offensiva austriaca minacciava di dilagare in pianura, raggiungendo il mare e tagliando fuori tutte le armate dell’Isonzo. Sarebbe stata la fine. La divisione di mio padre venne buttata a marce forzate laddove la falla aperta nel nostro schieramento era più pericolosa. Un cecchino, da un albero, gli sparò sulla schiena una pallottola che entrò da una spalla, esplose dentro e uscì dall’altra spalla. Rimase nel fango per molte ore. Pioggia e sangue. Fu portato via per scrupolo, perchè sembrava morto.
Lo vediamo all’ospedale, e ci rimarrà un anno, che rimira per la prima volta la sua piccolina sgambettare in braccio alla mamma, senza nemmeno poterla abbracciare. Aveva le spalle fracassate. Era uno stoico. Non lo dico io, lo disse l’ufficiale medico che l’aveva in cura all’ospedale di guerra. Introducevano la garza da una parte, la facevano uscire dall’altra parte e tiravano a mò di sega, alternativamente. Il tutto a mente serena. Mio padre impallidiva, sudava freddo, ma non emetteva un lamento. Pensava forse alla sua piccolina e alla sua bella moglie, e decideva che ne valeva la pena.
Ebbene, quest’uomo percorse novantadue anni di strada dominando la vita. Questo spiega forse il suo cordiale rapporto con la morte. Siamo a Pila, tutti attorno al tavolo. E’Natale. Papà oscilla un pò e si inclina da un lato, pallido come un lenzuolo. Tutti attorno a lui come galline spaventate. Viene adagiato a letto, viene chiamato il medico, tento goffamente il massaggio cardiaco. Passano pochi minuti e poi, come l’aurora sul mare, riapre i suoi occhi pazienti, sorride, e dice: “anche questa volta vi è andata male!”
Parlava sempre con il sorriso sulle labbra, la voce bassa, il gesto delicato. Sapeva distribuire bene le pause, per cui riusciva convincente. Amava la famiglia come nessun’altro, e non esisteva per lui gioia maggiore che stare con i suoi cari.
Quando io annunciai che avevo l’intenzione di nascere, lui aveva quarant’anni e mia madre trentasei. Avevano grossi problemi di soldi. Matilde aveva undici anni e mamma diceva di essere troppo vecchia per portare la pancia. Si vergognava, insomma! Io tentai allora di tornare indietro, per non disturbare, ma la porticina era già chiusa. Dovetti per forza tirare avanti, ed ora sono quì, a cinquantasei anni suonati. Forse per questo mi è rimasto appiccicato un desiderio acuto di essere accettato, e si vede ad occhio nudo. Quando nacqui non mi fu molto facile l’impatto con il mondo. Piangevo sempre, la notte, ed era mio padre che mi faceva ballare finchè mi addormentavo. Forse la dolcezza della sua voce, forse l’amore che ci metteva, chissà, io non mi ricordo proprio.
Aveva un tavolone tarlato, eppure i tecnigrafi erano già stati inventati da tempo, ma lui era affezionato al suo pezzo d’antiquariato, ed alla sera lo metteva sul tavolo del tinello, vi fissava con le puntine il suo disegno, e lavorava fino a notte inoltrata. Talvolta si metteva a leggere ad alta voce un libro. Prediligeva “I promessi sposi”, e con la sua voce calma dava la massima espressione al fraseggio, talchè tutti noi, radunati attorno a lui, restavamo incantati nell’ascoltare le vicende del povero Renzo bistrattato da tutti quei cattivi, e contento alla fine per aver recuperato quella pizza di Lucia. La commozione di tutti toccava il massimo, ed era autentica quando, nello scenario della peste, Cecilia viene adagiata sul carro degli appestati, e la voce di mio padre vibrava, e tutti si stropicciavano gli occhi umidi. Ho sempre sognato nella mia vita di riprodurre questi episodi intimi, ed essere io il lettore guida nella mia famiglia. Sbadigliavano tutti!
Aveva un grande talento inventivo. Se non disegnava, lo vedevi alle prese con forbici e cartoncini, che incollava diligentemente, formando tubetti o cubi nei quali inseriva lenti o prismi, accuratamente riposti in una vecchia scatoletta di cartone color cuoio. Poi si toglieva gli occhiali e appiccicava l’occhio sul marchingegno testè messo assieme con colla e mollette dei panni. Di lì nascevano strumenti di geodesia d’avanguardia, talchè il senatore Salmoiraghi lo riteneva il suo più prezioso collaboratore. La sua modestia però gli consentiva di accettare anche lavori umili, e così poteva mandare la famiglia in villeggiatura ad Asiago, abitudine abbastanza rara a quell’epoca. Il tutto uscito da quel tavolone tarlato come un sogno dalla lampada di Aladino.
Dopo sua moglie, Asiago è stata la sua passione. Vi ha costruito una casetta, appena andò in pensione. Ha così influenzato pesantemente il corso della mia vita, poichè è ad Asiago che ho conosciuto Anna, la mia seconda moglie, che abitava a due passi da noi. La casetta, costruita sulle ali di un sogno, è circondata da un giardinetto con abeti a mò di recinto. Papà era sempre in giardino a zappettare con il fazzoletto al collo come i contadini, nel suo regno, punto verde di arrivo dopo una vita travagliata.
Una sua specialità era quella di costruire giochini di cartone, sempre con colla e mollette dei panni. Molti sono stati fatti per Matilde, che era più vicina a papà di quanto fossi io, probabilmente geloso. Era il mio rivale nei confronti di mia madre. Ricordo un giochino costruito per Isabella, la nipotina. C’era uno sfondo di cartone che rappresentava il muro di una stanza. Da un buco nel muro usciva un topolino, ma una vecchia, con la scopa a due mani, schiacciava una scopata sul topolino, che si ritirava veloce nel buco. E il meccanismo era fatto con fili e cartoncini. Era economo in tutto, forse plasmato dal clima di austerità nel quale si era formato. Quando dipingeva un muro, allungava talmente la pittura che alla fine il muro sembrava più affrescato che dipinto, ed ognuno poteva scorgere nuvole o cavalli a seconda della propria fantasia.
Aveva un cannocchiale di ottone, forse quello di Galileo. Ogni tanto lo smontava, lo puliva e lo rimontava soddisfatto, riprovandolo alla finestra e commentando le immagini che gli comparivano nel campo visivo di volta in volta.
Ha lavorato fino all’ultimo. Aveva settant’anni e insegnava ancora disegno in una scuola industriale di Milano, dove è ancora ricordato da tutti per la finezza del suo tratto.
Da vecchio, ormai privo d’interessi, stava sempre seduto dietro a un tavolo a compilare cruciverba per ammazzare il tempo. Non partecipava alle discussioni. Ascoltava benevolmente, capiva tutto, ma si sentiva staccato, lontano. Aveva già in tasca il biglietto del viaggio, solo andata. Io non l’ho visto morire. L’hanno messo in una camera vicino a un moribondo. Ha detto sorridendo: “adesso è il mio turno”. La sera, quando l’ho lasciato, mi ha guardato a lungo con i suoi occhi chiari, quasi per dire: “perchè non resti ancora un poco?” Non l’ho più visto vivo. Non ho raccolto l’ultimo sguardo di questo uomo singolare. Eppure era mio padre! Era proprio l’uomo che desiderava morire nel suo letto circondato dai suoi cari, come un vecchio patriarca. Eccolo invece là, all’ospedale, con tubicini di plastica infilati da ogni parte per rubare qualche giorno, forse qualche ora alla comare secca. Questo vorrei dire. Nel momento in cui si vorrebbe lanciare uno sguardo retrospettivo sul proprio passato, sul proprio operato, per fare un bilancio della propria esistenza e affrontare con serenità il salto nel buio, bene, non si può. Non si può, perchè stuoli di manichini con la vestaglia bianca si affacendano come api attorno all’alveare in una gara di bontà. E intanto la morte perde il suo tragico fascino. Non è possibile stabilire con lei un valido rapporto, perchè ne vieni impedito in nome dei sacri principi di umanità. E così l’incubo degli ultimi giorni proietta un’ombra sinistra sugli ultimi anni di vita, e nulla è più sacro e solenne sulla faccia della terra.
E’ morto ormai da quattro anni mio padre, e solo ora, quì, all’ospedale di Mezzaselva, guardando il soffitto da posizione orizzontale, con la luce fioca della notte, ho pensato di ricondurlo in vita con un breve tratteggio della sua esistenza, affinche quegli episodi che solo noi abbiamo depositato nella memoria, non vadano perduti nelle nebbie del nulla. Sopravvivere può essere anche questo.

eugen
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MessaggioTitolo: Re: renzo mio padre   renzo mio padre Icon_minitime7/4/2010, 22:22

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MessaggioTitolo: Re: renzo mio padre   renzo mio padre Icon_minitime7/4/2010, 22:37

E hai fatto bene a scrivere, ti invidio un padre così. Ti devi essere commosso ripensando a tutte queste cose, ma la commozione è il grande dono che ci viene regalato dai ricordi.
Hai ridato vita ai tuoi cari e ai loro tempi.
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MessaggioTitolo: Re: renzo mio padre   renzo mio padre Icon_minitime18/4/2010, 18:48

Rita...questo pezzo l'ho scritto su di un blok notis di notte...all'ospedale, ed è rimasto lì tanto tempo. Ho provato a pubblicarlo, perche mi è sembrato giusto ricordare un uomo migliore di me...ma forse non interessa perchè è troppo lungo. A suo tempo l'aveva segnalato Dacia Maraini per una sua trasmissione sui rapporti di famiglia. Ciao Rita! Presto al tuo ritorno...buon viaggio! Eugenio Smile
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