Grani di ghiaccio

Sono mesi che Lia rimanda la decisione; l’Agenzia immobiliare le ha comunicato che hanno finalmente trovato un acquirente alla vecchia casa padronale che era appartenuta ai suoi nonni ed è necessario che lei vada a visionare il mobilio che ancora resta a prendere polvere tra il cicaleccio dei tarli a fare la colonna sonora all’immobilità. Deve decidere cosa conservare o cosa invece, dei tanti oggetti che da anni giacciono sparpagliati nelle stanze, nella soffitta, nella cantina, può essere portato alla discarica.
Quel pomeriggio si decide: il marito è fuori città, i figli ad una festa di compleanno fino a sera tarda; può dunque affrontare il viaggio fino in montagna per tornare ancora una volta, forse l’ultima, alla vecchia casa rossa con il cancello aguzzo.
La strada si dipana tra un sole brillante ma freddo, i faggi ed i castagni iniziano ad assumere le calde colorazioni che sarebbero sbocciate in un cromatismo di rossi, di gialli e d’arancioni di lì a pochi giorni.
L’auto ubbidisce silenziosa ad ogni sterzata, Lia guida serena anche se dentro ha una punta d’ansia per l’attesa di ritrovarsi in quella casa dove ha trascorso tantissime estati da bambina.
All’inizio del paese svolta per la stradina sterrata: è irriconoscibile dall’ultima volta che l’ha percorsa, pare una mulattiera piena di buche irregolari che le nevi invernali riempiranno per avvolgere i campi che circondano la casa d’irreale bianco abbagliante.
La casa si staglia sul poggio, imponente nella sua vetustà; dalla strada non si notano le crepe che rugano l’intonaco, una volta rosso, ora di un rosa antico molto sbiadito.
Il cancello è tutto arrugginito ed il bersò di rose è cresciuto scomposto senza un ordine preciso; il giardino che una volta era l’orgoglio di nonna Maddalena è un ammasso informe di erbaccia.
Lia scende dall’auto per aprire il pesante cancello, che si sposta cigolando spaventosamente; entra e spegne l’auto.
Si avvicina al portone frugando nella borsa alla ricerca delle chiavi; viene accolta da un pulviscolo che balla sul pavimento alla lama di luce obliqua del sole che penetra dagli scuri.
Spalanca tutte le finestre del piano terra, una alla volta, riempiendo di vita quelle stanze morte; i pochi mobili che ancora arredano il salone sono coperti da lenzuola polverose. Lia li scopre ed immediatamente un grano di ghiaccio le scende dentro, nel liberare il pianoforte a coda a lato del camino ancora sporco di cenere: sullo sgabello, concentrata sullo spartito di Chopin, rivede nonna Maddalena, con i suoi abiti scuri da contadina appena rientrata dalla raccolta delle mele nel podere, le mani dalle unghie tozze e nere, che lievita nell’aria le struggenti note del Notturno; vede se stessa, i suoi cugini e le sue cugine, seduti per terra, coi visetti arrossati rivolti assorti ed estasiati verso la figura di donna, meravigliati della delicatezza e della poeticità che quell’arcaica figura riesce a fare uscire da mani abituate al duro lavoro dei campi e delle stalle.
Lia si siede nella polvere, si cinge le gambe portandole al seno e chiude gli occhi: nelle orecchie si smorza l’ultima nota di Chopin ed inizia la Ninna Nanna di Brahms. I ricordi bambini tornano prepotenti a riempire la sua mente. Si culla alla nenia, perdendo la cognizione del tempo.
Un lampo di memoria la trafigge, sconvolgendola, mentre percepisce la figura di nonno Giuseppe che entra nella sala, avvolgendo con uno sguardo strano i bambini seduti ai piedi della nonna.
Lia ha un brivido, le pare che il tempo sia annullato e che anni e anni di sedute analitiche non siano mai esistite: vede i famelici occhi di nonno Giuseppe, lupo in cerca dell’agnello sacrificale alle sue voglie, ai suoi istinti animali; sguardo rosso che si accende quando sceglie la sua preda, incurante dei visi fanciulli che dall’aurea di rapimento alle note si stanno colorando di grigio terrore; nonna Maddalena abbassa lo sguardo sull’ampio petto, chiude il pianoforte e si defila in cucina, a preparare la cena, in fretta, perché nonno Giuseppe è impaziente di ritirarsi nelle stanze da letto.
Lia è come imprigionata dentro ad una camicia di forza dal ricordo, sente nelle orecchie il cigolio delle molle del letto, l’ansimare del nonno e le deboli grida di protesta di voce bambina, prontamente soffocata dalla mano che spinge sul capo, a riempire la piccola bocca di sapore selvatico.
Vuole scuotersi, Lia, vuole uscire dall’incubo così pieno di rumori e sapori: l’aiuta una lacrima che scende silenziosa dalle ciglia, rotola silenziosa sulla gota, muore salata sulle labbra.
Si alza di scatto, chiude gli scuri in fretta e risale in auto, riprende lo stradello sterrato mentre compone nel cellulare il numero dell’Agenzia:
"Sono andata al Poggio, ho controllato. E’ tutto da buttare, Signor Vivi, non c’è nulla da recuperare in quella casa, è solo robaccia ed anticaglia. Proceda pure con la ditta di smaltimento rifiuti, mandi la fattura al mio domicilio. E fissi in fretta, per cortesia, l’appuntamento dal Notaio per l’atto di vendita. A risentirci, buon pomeriggio".