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 nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE

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Marcello Devenuti
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Marcello Devenuti


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MessaggioTitolo: nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE   nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE Icon_minitime29/9/2008, 13:24

I contadini erano più fortunati. Avevano la carne con gli animali da cortile; le verdure e i legumi nell’orto; il latte, con l’allevamento di una o due mucche. Con la loro farina da cuocere al forno, potevano fare il pane bianco, da tenere in dispense collocate nei luoghi più freschi della casa. Per questo la gente di città girava per le campagne con qualsiasi mezzo, sia presso parenti e conoscenti o bussando alle case coloniche. A volte tornavano con piccole scorte, regalate o acquistate a prezzi accessibili. Altre volte portando una gabbietta di pulcini, da tenere sul balcone di casa con una zampetta legata a un vaso. Gli avanzi della cucina servivano a farli ingrassare. Sempre, in occasione delle festività maggiori, uno dei pulcini divenuto gallina, veniva cucinato e mangiato, interiora comprese.

Alle dodici, assieme a tutti gli altri, si avviò verso il casolare. La cucina era avvolta in un profumo intenso e inebriante, che sembrava saziare.
Gli uomini portarono il pentolone di polenta di mais sulla spianatoia di legno. Sua madre cominciò a stenderla. Infine, tra le risa e le esclamazioni dei presenti, la zia versò sulla polenta stesa un pentolino di salcicce e sugo di pomodoro.
Il viso della bambina era paonazzo di gioia, mentre con gli occhi andava da sua madre al capofamiglia, fermandosi più volte sulla tavola imbandita.
Quella che ormai era una festa continuò anche nel pomeriggio, con la raccolta degli ortaggi e la pulitura dei legumi.
La madre non si fermò un solo momento, tranne che per il pranzo. Aiutò a sparecchiare, lavò le stoviglie e spazzò il pavimento, benché la sua anziana zia e le sue cugine le ripetessero di starsene tranquilla. Lei trovava sempre il modo di essere utile, con semplicità e dedizione. Da tempo si era privata dei pregiudizi dell’orgoglio. Era una donna fiera, ma consapevole che l’orgoglio non riempiva la pancia, e lei aveva cinque bocche da sfamare.
Il pomeriggio arrivò in fretta, troppo in fretta. Erano le diciotto passate e alle venti e trenta sarebbe arrivata la lattifera, ad aspettarle nei pressi dell’incrocio convenuto.
Doveva tornare in città, subito. Nella loro casa, in piazza Mastai, aveva lasciato l’ultimo di cinque figli, di appena quattro mesi. Lo aveva affidato all’altra figliola di dieci anni e ad una parente che viveva sul loro stesso pianerottolo.
Inoltre aveva sentito dire che alcuni, tra parroci e benestanti di San Lorenzo, avrebbero consegnato dei pacchi dono ai più bisognosi. Poteva essere una leggenda, come tante in quei tempi, ma lei non poteva lasciare spazio al dubbio. Si salutarono con ripetuti abbracci. La commozione era quella di sempre, così come le lacrime di riconoscenza. I parenti le dissero di rimanere almeno un altro giorno, o lasciare la bambina, ma lei non poteva.
Partì con le sporte di doni: due fagotti di sopravvivenza, fatti con canovacci di cucina e annodati in cima, a guisa di maniglia.
Così, con la mano stretta su quella della figlia ed una sporta ciascuna, presero la via del ritorno.


Il 10/07/1943 le armate dei generali Patton e Montgomery sbarcarono in Sicilia. La mafia facilitò le operazioni e ricevette, in compenso, il potere nelle amministrazioni locali. Il 90% dei comuni siciliani furono governati da boss mafiosi, al fine di assicurare l'ordine alle spalle delle truppe alleate. Fu così che la mafia recuperò le posizioni che aveva perduto con gli interventi di Cesare Mori, il prefetto di ferro. Famosi gangster, quali Vito Genovese e Lucky Luciano, circolavano in uniforme dell'esercito americano o esercitavano funzioni pubbliche di rilievo nell'amministrazione alleata d'occupazione.

Gli scontri in Europa e la situazione italiana, pur sottoposti alla censura del regime, allontanarono sempre più la popolazione dalle illusioni della vittoria. L’idea che qualche migliaio di morti avrebbero portato l’Italia al tavolo delle grandi potenza, aveva perso ogni significato. Le privazioni e la paura pensavano in piccolo: sopravvivere e sfamarsi.
Nel marzo del 1943 un'ondata di scioperi, sotto la direzione anche di militanti anti-fascisti, investi l'Italia del nord, in particolare Torino.
La crisi economica dovuta alla guerra, che si trascina da anni, aveva messo in crisi il sistema produttivo nazionale.


La mattina del 19/07/1943 la donna, con la creatura di quattro mesi in braccio, si avviò verso S. Lorenzo.
Sul tram cominciò ad allattarlo al seno. Il piccolo piangeva. Si addormentò dopo alcune poppate di latte caldo.
La donna si ricompose, continuando a cullarlo. Una nenia appena percettibile si accompagnava ai movimenti del corpo. Era un canto sussurrato nelle orecchie del figlioletto, una cantilena di accoglienza e protezione. I suoi occhi controllavano tutto: dal bambino in grembo allo sferragliare del tram; dalla strada agli altri viaggiatori; dalle nuvole bianche ai passanti. Lo sguardo scorreva, imparava. Cercava possibilità, occasioni e briciole di speranza, rimanendo fiero ed impaurito. Si diceva che la debolezza non portasse pane, ma che di forza si poteva anche morire. Lei si nutriva della sola forza della disperazione, che era più potente di qualsiasi debolezza.
Alle dieci e trentacinque scese dal tram, nei pressi dello scalo di San Lorenzo. Si accodò a un fila di persone dirette verso il piazzale. Erano poche, troppo poche per l’arrivo dei pacchi alimentari. Ebbe un fremito, solo un accenno, poi coprì bene il figlio, che ancora dormiva. Lo spostò tra le braccia, per bilanciarsi meglio.
Decise di aspettare. Passati dieci minuti, con quel fardello sempre più pesante, si mosse verso lo scalo.
Prima della galleria, poco distante dai binari, viveva una sua cugina di secondo grado. Il marito faceva la borsa nera. Non aveva figli e sarebbe stata contenta di prendere in braccia il bambino e coccolarlo. L’avrebbe aiutata, come altre volte, e lei si sarebbe sdebitata facendo il bucato, stirando e passando lo straccio. Ma non c’era tempo.
Alle dieci e cinquantacinque la piazza si animò di persone.
Pensò che fosse per via dei pacchi dono. Sorrise dicendo al suo piccolo fagotto che tutto andava bene e baciandolo ripetutamente.
Poi rimase impietrita: tutta quella gente non andava da una parte precisa, ma correva urlando verso ogni direzione.
Le campane della chiesa batterono le undici, quando senti il proprio cuore gonfiarsi di paura.
Non riusciva a muoversi.
Strinse ancora più forte il figlio.
Le sirene percuotevano l’aria, lamentose.
Corse verso la galleria, seguendo la folla.
Il rumore degli aerei non era più il sottile incedere di un pensiero frusciante.
Entrò nel tunnel, spintonando chiunque le sbarrasse la strada.
Alle undici un minuto e quarantanove secondi, si accovacciò in terra, inarcando il corpo, come uno scudo per il proprio cucciolo.


Erano esattamente le 11 un minuto e cinquanta secondi, quando il primo passaggio di otto bombe toccò terra.
Venne investito in pieno il quartiere San Lorenzo e furono centrati il piazzale del Verano e l’adiacente piazzale San Lorenzo.
Le maggiori devastazioni furono concentrate nel triangolo formato dal piazzale Sisto V, piazzale San Lorenzo e piazza Porta Maggiore.
Un intero quartiere di Roma fu raso al suolo.
Quasi 3.000 i morti accertati e almeno 6.000 i feriti, causati dagli ordigni lanciati dai bombardieri anglo-americani.
Fu colpita, in parte, la stazione ferroviaria, obbiettivo strategico, ma vennero distrutte le case civili.

Dalle rovine del quartiere di San Lorenzo partì il bombardamento della città.
*ROMA NON SARA’ MAI BOMBARDATA!*
*Né Roma, né Firenze, né Venezia, né Assisi*
Queste furono le assicurazioni degli anglo-americani, proprio mentre Eisenhower ordinava: *Se per salvare un solo uomo americano dovete buttare giù il Colosseo,…. buttatelo giù!!*

(La tecnica di distruggere le città, per demoralizzare le popolazioni, ebbe il suo apice a Dresda, nel febbraio 1945 e a Hiroshina nell’agosto dello stesso anno. Non ha più smesso).

Pio XII (il papa che accoglierà e fornirà di passaporti per il sud america, previa secondo battesimo, tutti i nazifascisti che si rifugiavano in S.Pietro), si presentò nel quartiere distrutto di San Lorenzo, per dare un aiuto morale ma anche pratico: 1.000 lire a chi aveva bisogno.


La galleria tremava. Urla e lamenti facevano da contrappunto tra le pause delle esplosioni.
Pezzi di calcinacci piovvero sui suoi capelli raccolti. Mise le mani attorno al volto del figlio, a protezione.
Le persone, a gruppi di due o tre, si stringevano in un unico corpo.
Lei strinse ancora di più il piccolo. Il suo pianto le sembrava la manifestazione della consapevolezza del terrore, ma era suo l’orrore e lei non poteva farsi ingoiare da quel buio.
Scansò scialle, camicione e maglia e offrì il seno al suo pianto. Lo allattò per più di due ore, fino a dopo le tredici.
Le esplosioni diminuirono d’intensità, quasi all’improvviso.
Il bambino riprese a piangere. Lei pensò di uscire e fuggire, ma le sirene continuavano, laceranti.
In fila, col coraggio della paura, i rifugiati cominciarono a uscire dalla galleria. I bombardamenti erano ripresi, più lontani.
Ora avevano il sapore di un eco che scavava profondo, dissolvendosi rapidamente su se stesso.
Appena fuori, confusa tra le gente che si guardava attorno, la donna fu presa dal panico: il piccolo sembrava non respirare. Il volto era paonazzo e numerose bolle sferoidali si andavano formando su ogni piega del suo viso. La disperazione le diete un’ultima scossa. Cominciò a battergli la piccola schiena, chiamandolo per nome, finché non cominciò a singhiozzare. Lo pose in terra, sopra il proprio scialle. Poi, in ginocchio, prese a svestirlo, offrendogli la propria voce e le proprie mani. Il corpo della creatura era interamente ricoperto di macchie rosse, di vario spessore. La donna sentì un urlo crescerle dentro, ma non poteva, non ora. Ingoiò la paura e cominciò a chiedere aiuto, imperiosamente, quasi un comando.
Alcune donne si avvicinarono, bombardandola di parole: …..è stato il latte malato…..è lo sfogo di Sant’Antonio…..è una scarica di istamine, disse un uomo in camice bianco…. dobbiamo portarlo in ospedale, subito….
I pomfi erano di qualche millimetro e diffusi per tutto il corpo. Alcuni si presentavano chiari nella parte centrale.
Uomini e donne -neanche l’orrore era riuscito a privarli della pietas- li caricarono su una delle autoambulanze appena arrivate.
Partirono dopo qualche minuto, stretti nel sangue e nei brandelli di carne dei feriti. Arrivarono all’ospedale Fatebenefratelli, sull’ Isola Tiberina, nei pressi dalla loro casa. Le infermiere ed un giovane medico si presero cura del bambino.


Alle quindici gli echi della morte tornarono, mentre le Lattifere terminavano le loro consegne.
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Daniela Micheli
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Daniela Micheli


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MessaggioTitolo: Re: nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE   nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE Icon_minitime29/9/2008, 14:09

proseguo
(sei splendido in questa prosa)
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Natascia Prinzivalli
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Natascia Prinzivalli


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MessaggioTitolo: Re: nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE   nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE Icon_minitime29/9/2008, 16:07

Presa da questa tua rilettura così piacevolmente intensa, mi stavo perdendo quest'ultima.

Tra il taglio giornalistico e la narrazione dei singoli, rappresentati dagli eventi
storici, che tu descrivi in maniera perfetta, legandoli in maniera naturale ed emotivamente coinvolgente.

With my very compliments.

_____gin
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http://www.bedo.it/allaricercadeltempop/
Marcello Devenuti
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Marcello Devenuti


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MessaggioTitolo: Re: nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE   nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE Icon_minitime29/9/2008, 17:35

e pensare che tutto nasce da una orticaria ancora *prudente*....
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MessaggioTitolo: Re: nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE   nuova - 2* parte -LE STRADE DELL LATTIFERE Icon_minitime

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