I migliori anni della mia vita - This is the end

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Avevo un canestro tra le mani ricolmo di tutte le cose inutili che non riempiono la vita ma la fanno sentire meno pesante.
Poco alla volta lo avevo riempito gettando prima un oggetto poi un altro, fino a farlo quasi straripare.
Non so perché oggi mi è venuta la voglia di capovolgerlo sul letto e prendere ogni singolo oggetto, metterli sotto il rubinetto dell’acqua fresca, lavarli per bene con il sapone di marsiglia, asciugarli con un panno leggero e riporli uno alla volta in un nuovo ordinato caos.
Li osservo tra le mie mani, sorridendo ad ogni ricordo che affiora.
Ecco un timbro di quando ancora era una società di persone e non di capitali, tanti anni fa. E lo era davvero di persone al di là dell’aspetto fiscale, c’erano persone che si ritrovavano dietro quelle mura a parlare di strategie e scuotere la testa su bollette impagate dell’Enel e della Telecom. Uno sguardo e via, prontamente accantonati i problemi per ricominciare a parlare di strategie di mercato. Quale mercato? Il divertimificio era la nostra piazza e c’erano sempre tanti clienti, la tattica era convincerli a venire alla nostra bancarella ad acquistare le nostre prelibate merci.
Le nostre mercanzie erano le più diverse, le più eclettiche, le più strane e le più dure ma erano nostre, mie, tue, sue, sue; e lo era nel sudore che ci bagnava in pieno inverno nelle danze scatenate di un pogo o di uno ska. Era del ragazzo biondiccio con gli occhi strabicciati di nero e il crocefisso al collo, intento a ripetere passi all’infinito con il sedere all’indietro al ritmo della voce ipnotica di Jan Curtis.
Apparteneva a quella sbandata che si dondolava alle note di Because the Night e del compagno schizzato dalle note dei Pogues.
Era di tutti noi.
E voi, ora, che ne avete fatto?
Avete messo in svendita tutto, avete esercitato la maggioranza, la mia voce non ha avuto alcun ascoltatore.
Mi avete ucciso, perché avete svenduto al miglior offerente, un pezzo della mia vita.
Vi odio per questo.
E odio questo timbro che profuma di sapone di marsiglia ma che non imprime più nulla, ora.
Tanto, era il timbro di quando era una società di persone.
Fanculo.

14 maggio 2007

Ha tremato la mano, pur volendolo, non sono riuscita a farla restare salda e decisa.
Oggi è stata l’occasione per togliere dalla custodia la Mont Blanc regalatami anni fa: non l’ho mai usata, per un reverenziale timore che ho sempre mostrato nei confronti degli oggetti preziosi.
Ma oggi era il giorno giusto, lo dovevo a me stessa: per siglare il mio nome su tutti quei fogli che si aprivano davanti a me.
Ha tremato la mano mentre svitavo il cappuccio ed ho temuto per un attimo di macchiare le pagine i cui righi scorrevano indistinti sotto i miei occhi.
Gli occhiali mi hanno aiutata a scrivere sopra la riga: la mia firma, a fianco un’altra firma, la data.
Undici ottobre duemilasette.
Ho siglato.
Non potevo esimermi dal farlo.
Prezioso l’inchiostro usato, ogni goccia che dal pennino andava sul foglio un po’ rugoso è costata momenti, ore, anni di vita.
Ora diventano ricordi nei quali rifugiarmi nei momenti di sconforto: aprire il baule, sbirciare all’interno e rassicurarmi che quello che ci vedo dentro l’ho fatto io, io l’ho costruito, con lavoro e stanchezza; con vacanze non fatte.
Con figli che chiamavano mamma la propria nonna.
Io.
Solo io so quanto di me c’è in questa firma.
Ha tremato la mano nel mettere un punto.
Da domani si ricomincia, ho un nuovo baule da riempire, mi aiuterà mio figlio a spostarlo nei vani della memoria.
La Mont Blanc è riposta nuovamente nella custodia e relegata in fondo ad un cassetto: non ci frugherò più dentro, la penna ha fatto il suo dovere, ora può tornare a dormire.

11 ottobre 2007

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Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.

Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco
e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che
fanno di uno sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore
davanti all’errore e ai sentimenti.

Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi e’ infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l’incertezza per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai
consigli sensati.

Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge,
chi non ascolta musica, chi non trova grazia in se stesso.

Muore lentamente chi distrugge l’amor proprio, chi non si lascia
aiutare; chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o
della pioggia incessante.

Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce, chi non
risponde quando gli chiedono qualcosa che conosce.

Evitiamo la morte a piccole dosi, ricordando sempre che essere
vivo richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto
di respirare.

Soltanto l’ardente pazienza porterà al raggiungimento di una
splendida felicita’.

Pablo Neruda