Le città sono un ammasso di mattoni.
Camminare per strada di notte dopo la pioggia, respirare l’aria umida e carica di novità, regala una manciata d’anni in più da vivere.
Per le vie della mia città però non era sempre possibile farlo.
Avevo paura a camminar di notte.
Le facce scure che vedevo lungo il viale della stazione mi mettevano soggezione.
Il telegiornale l’aveva confermato più volte: non c’era da fidarsi.
Per questo amavo stare da mio padre a borgo “il Poggetto” quando mi era possibile. Lì non c’erano palazzoni, stranieri.
E non sembrava di stare in città. Infatti, della città aveva poco o nulla.
Le ville disposte a schiera mi rassicuravano; i giardini curati mi mettevano serenità. Ma di notte non sapevo camminare, e faticavo respirare.
Quelle camminate lungo parco Italia, con mio nonno, erano un ricordo. Lui si che sapeva dare un nome ha tutti gli alberi, a qualunque fiore. Alla natura.
A volte, quando guardavo il quartiere periferico in cui vivevo dalla finestra del mio appartamento al decimo piano, pensavo alle parole di quel vecchio saggio che era il padre di mio padre.
Ricordavo con nostalgia i suoi discorsi. La sua libreria. I tanti dischi in vinile. La sua giacca la sua coppola.
Lui sapeva stupirmi.
“Si Francesca è proprio così, i geni muoiono all’asilo. Li tutti subiscono, e voi molto più di noi che in passato non avevamo la possibilità di frequentare la scuola; dicevo, li subiamo tutti un’omologazione o meglio un’alienazione”
“Come?!” chiedevo io a ogni sua affermazione.
“Leonardo, Dante, Michelangelo, insomma tutta questa gente straordinaria non è mai andata all’asilo. I bambini, si sa non hanno la coscienza del sé, e quindi non sanno di essere bambini. Per loro è facile fantasticare, ma se gli sono tappate le ali, cadono. In quel modo è facile pilotarli. Disegni tutti uguali, colori da copiare. Figure. Stesse caramelle da masticare. I geni muoiono all’asilo.”
“Nonno non capisco! Che vuoi dire? I geni… l’asilo…che ti prende?” controbattevo senza comprendere.
“Capirai” rispondeva lui.
Discorsi da adulti.
Da gente matura.
Forse dimenticava la mia età. Forse no.
Da quando lui non c’era più, avevo smesso poi di fare quelle lunghe passeggiate, di esplorare e di conoscere.
Il vuoto era enorme.
Nessuno, né mia madre persa com’era dietro a Pietro il suo nuovo e brillante marito, né papà che se ne stava chiuso tutto il giorno in quella sua bella villa in periferia, erano mai riusciti a colmare quel vuoto.
Non avevo più trovato il coraggio di mettere piede nella sua stanza da quando non c’era più.
Tra le sue cose mi sarei affannata a cercarlo, sapendo di perdere tempo.
Disegni, fogli... presagi.
Dalla mia finestra, inerme a distanza di anni, durante una di quelle notti che non si lasciano dimenticare, quella prima degli esami, guardavo con stupore la strada e la pioggia scendere.
Nel silenzio rotto dal rumore delle macchine che sul bagnato schizzavano via, pensai alla mia vita e a quel che sentivo.
Nella mia solitudine mi sentivo in compagnia di un sacco di sconosciuti che come me se ne stavano nelle loro gabbie di mattoni.
Forse in città, o meglio ancora in periferia.
E mi venne da sorridere a pensare a quella marea di gente che se ne stava per strada e riposava sulle panchine di notte.
Tra quelle vie dove si respirava l’odore pungente delle vite abbandonate al tempo e al destino, quella notte mi parvero più liberi che mai.
Poi non feci altro che aprire la pesante portafinestra che dava sul balcone, scavalcare la ringhiera decorata di rosso e di fiori e volare via tra quelle persone, alla ricerca di quei geni che continuavano a morire all’asilo.