Invito a nozze

― Ciao amore, allora, ti posso far vedere le bomboniere per i testimoni?
― Veramente dovrei parlar…
― …Va bene, aspetta che poso queste cose, mi lavo le mani e sono subito da te…

Lo scroscio dell’acqua copre l’ultima frase di Serena, ma la intuisco: “ti vedo strano, che hai?”
Non mi piace la sua voce.
Quando è via penso che mi manchi.
Quando mi è accanto, che non era vero.

Guardo le buste all’ingresso: sono di cartone rigido, con i manici di corda inamidata, dura. La cravatta mi stringe, l’allento piano, ma il nodo alla gola rimane.

― Allora? Le hai viste? ― è accanto a me; si sta struccando.
― No. Ti devo parlare. Non sono felice.
― Cosa? Dai amore, non è il momento di scherzare. Dobbiamo ancora scrivere le partecipazioni e poi…
― Sono serio, questo matrimonio non lo...
― Vero che è bellissima? ― mi mostra un cestino di porcellana ― È per Nina e questa… ― fruga nella busta e ne estrae una penna d’argento. Me la porge ma le mie braccia rimangono inerti ― …è per Lucio.
― Sere! Mi ascolti, per favore? Io non…
― Aspetta! Il telefono!
― …ti amo!

Paziento mentre parla. Sento le frasi prevedibili della madre come da un grammofono degli anni ’50. Non tento nemmeno di afferrare le parole dall’altra parte del filo. Le so già.
Finalmente chiude.

― Serena, ascoltami.
― Dimmi, tu sei il mio gattino vero? ¬― mi si avvicina e mi abbraccia stretto. Poggia il suo viso sulla mia spalla. Sento il suo profumo.
― Non me la sento, Sere. Non possiamo sposarci così.

Mi stringe forte. Mi bacia a lungo. È un bacio salato. Piange, penso.

― Sai, amore, quando fai così ti amo di più. Vieni…

Mi prende per mano. Mi tira verso il divano. Ci sediamo. Sul tavolo c’è la lista degli invitati.

― Ecco gattino, facciamo così: tu detti, io scrivo.
― Sere… non me la sento…
― Detta, dai…
― Laura Lecci, via Bari 43, 55100, Lucca.