L'hanno messo tra i cento borghi d'Italia per il suo centro storico lastricato a pietra, per quelle stesse pietre dove scivolare è facile sopratutto col ghiaccio. Sono rimaste poche voci nella strada e mi è capitato passando di vedere il viso di Cristina quando mi diceva se volevo un uovo fresco, affacciata alla porta sorridente nel suo vestito di flanellina verde, le calze pesanti di lana sotto al ginocchio.
Sono rimaste le pietre lucide di pioggia fine dove un tempo i muli erano attaccati agli anelli delle porte e solo l'inverno era a fare da spazzino o a coprire con la neve il putridume.
Il casolare fuori è sgarrupato, incantato da un lato col suo capo triste reclinato, le erbacce fanno festa.
Di fianco il mandorlo carico, il fico dopo e campagna d'infinito dietro, dove possono rotolare gli occhi contadini fino al sole. Sembra un quadro di Van Gogh quello scorcio. Lo spazio è tanto là e io sogno e penso: se non fossi stata sola ci avrei certo costruito. Costruito un sogno di campagna in due, il mio sogno.
E mi prende male guardare quella terra abbandonata mentre mi inzacchero i piedi tra le zolle umide, mi prende male e rido per non darlo a vedere. Male mi prende a immaginare una madre in veste rossa saltellare e il pozzo, secco ora. Fermo.
Fantasmi e sogni premono.
E io chino il capo camminando, come tante donne hanno fatto prima. Allo stesso modo saluto sorridendo, perchè il giorno è prezioso e i giovani non sanno che la vecchiaia cambia il passo e non si ha più poi tanta fretta di andare, ma ci si attarda seduti sul gradino di pietra a prendere un po' di sole fuori del portone. Quello che resta si dà (o si da come dice Gea) al giorno che ci prende un'altra vita.
S'accavallano pietre, terra, zolle e volti di fantasmi e il cuore d'emozione lacera. Asciutto.