TU, CE L'HAI LA RISPOSTA? - DANIELA MICHELI

Bene, eccoci qua, dico sottovoce, e un gabbiano si volta a guardarmi un istante.
Pare stia deridendomi con il suo grido; forse, ha riconosciuto nella mia figura l'uomo che l'inverno precedente aveva lasciato le sue impronte sulla stessa spiaggia.
Sembra quasi che sogghigni nel non vedere più sul mio viso, sulle mie spalle, la tracotanza di chi credeva di avere il mondo in mano, l'illusione di chi aveva tra le mani un sogno e gli è stato strappato, come un aquilone impazzito che tende la corda nella sua corsa folle verso il cielo.
Sembra sia passata un'eternità; sono invece trascorsi solamente dodici mesi.
Un attimo o una vita: quello che è accaduto negli ultimi tempi è un pesante fardello da portare che mi ha invecchiato all'improvviso, stroncando la speranza che proprio qui aveva iniziato a fiorire, con due semplici parole.
Il gabbiano è volato via; non riesco ad affidare alle sue ali il ricordo di lei, per farlo allontanare, per sentirlo leggero come il suo volo.
Ecco, riconosco la duna dove si mise a sedere, fissandomi in faccia i suoi occhi chiari, senza menzogna, lucidi di gioia, colmi di aspettativa e di sogni colorati.
Il vento le soffiava dietro, sollevandole i capelli in una nuvola setosa che contrastava con il plumbeo sopra di noi.
Il cielo, che gravava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembrava una pancia d'asino rigonfia, pronta a partorire pioggia; lei non se ne curava: continuava a fissarmi in silenzio, gustandosi il muggito delle onde che scaraventavano la loro ira sulla battigia e ignorando alcuni spruzzi che arrivavano fino a lei, battezzandola appena di gelide lacrime salate.

- Andiamo? Ho voglia del mare d'inverno, non ci sarà nessuno oltre a noi, possiamo camminare sulla sabbia e se non sarà troppo freddo, potremo farlo anche a piedi nudi. Poi, ti devo dire una cosa e voglio dirtela là –

La conobbi una mattina.
La giornata iniziò male, e benché io non sia un tipo superstizioso credo che in giorni del genere la cosa migliore sia non accettare incarichi, anche se la ricompensa ha sei zeri sulla destra ed è esentasse.
Stavo andando a firmare il mio primo, vero contratto di lavoro a tempo indeterminato: non sarei più stato, finalmente, un precario a gettone.
Ero riuscito a strappare, dopo tanti anni, uno stipendio che contemplava, oltre al fisso, un rimborso spese di oltre un milione al mese ed ero felice: dopo anni di gavetta, avevo finalmente trovato il lavoro per cui avevo perso la vista sui libri di scuola e mi sarei potuto permettere di affittare una casa tutta per me, soffocato dal dividere due stanze con altri due neo laureati, miei compagni di sventura e con altrettanti pochi soldi nelle tasche.
Ero molto in ritardo all'appuntamento, qualcuno si era divertito a tagliarmi due gomme dell'auto e fui tentato, per un attimo, di rientrare in casa e telefonare per rimandare, adducendo al fatto che ero senza trasporto.
Poi ci ripensai, chiamai un taxi.
Mi costò una fortuna e oggi, alla luce di quanto poi successe, penso che se avessi risparmiato i soldi della corsa, se avessi ascoltato la voce che mi diceva di non andare, ora non sarei qui, a perdermi nei gridi di un irriverente gabbiano in volo.
Lei mi accolse alla reception della grande clinica privata di vetro e acciaio che era stata inaugurata solo qualche mese prima, all'ingresso della città.
I miei occhi si incatenarono ai suoi, non riuscivo a smettere di guardarla e non capivo nulla di ciò che mi stava dicendo.
Sentivo solamente i battiti del cuore che andavano velocissimi e mi pareva di udire il gorgoglio del sangue che scorreva come fiume impetuoso nelle vene.
I suoi occhi azzurri sorridevano, quasi avessero percepito la magia del momento e smise di parlare: restammo a lungo a fissarci, trattenendo il silenzio, fino a che l'attimo non venne interrotto dal primario che entrò, scusandosi del ritardo.
Mi fece accomodare e mi spiegò in cosa sarebbe consistito il mio lavoro: di responsabilità, sopra all'equipe di tre persone che mi avrebbero affiancato nella ricerca ma dei quali ero io l'unico e assoluto referente.
Fu inutile spiegarmi la segretezza che mi veniva richiesta: il mio dottorato in anatomia patologica era servito, fino a quel momento, anche a rilevare dettagli importanti nelle autopsie, aiutando gli inquirenti a risolvere alcuni casi di omicidio.
Ci stringemmo la mano e mi indirizzò nuovamente da lei, per firmare l'incarico, dandomi appuntamento al lunedì successivo, quando avrei preso definitivamente servizio.
Il sangue, che durante il colloquio col dottore aveva ripreso il suo scorrere normale, riprese, frenetico, a pulsare veloce.
Lei mi parlava, io afferravo solamente qualche parola, qua e là.
Riuscii a firmare dove mi indicava e mi allungò la mano, per salutarmi.
Non gliela resi subito: con voce strozzata le chiesi se accettava di uscire con me, qualche volta.
Fui sorpreso e immensamente felice quando mi diede appuntamento per la stessa sera.
Mentre uscivo dalla clinica, mi pareva di non camminare, ma di volare, qualche metro sopra il cemento del marciapiede, sospeso in alto, tanto mi sentivo leggero.
Mi ritrovai a ridere e a chiedermi se si diventa così quando ci si innamora.
Mai, prima di quel giorno, avevo provato una tale esaltazione ed ebbrezza; mai avevo visto un cielo così azzurro e respirato un'aria così limpida.
Mai, i minuti, erano trascorsi con una così esasperante lentezza.
Ero vivo, avevo trovato un lavoro e, forse, una ragazza.
Nell'arrivare sotto il portone di casa, sorrisi alle due gomme squarciate: chiamai il gommista, chiedendogli la cortesia di mandare subito qualcuno, perché mi era assolutamente necessaria l'auto, di lì a poche ore.
Ero contento. Quella sera avevo un appuntamento. Qualcuno da toccare, da guardare, con cui parlare. Con cui dimenticare la morte, pane quotidiano.

- Sono incinta –
Il mondo si era fermato.
- Che hai detto? –
- Sono incinta, Marco, stiamo per avere un bambino –
Restai inebetito, sospeso in una atmosfera irreale che solamente la sua risata giocosa spezzò. Stavo per diventare padre e non ci credevo.
Amavo quella donna che era lì, di fronte a me, con i capelli che giocavano col vento e rideva, felice, di quello che stava avvenendo.
Lei, che era riuscita a farmi vivere gli ultimi anni come se tutto ciò che da bambino mi era stato negato non era mai accaduto; lei che riscattava con la sua dolcezza, la sua serenità, il suo amore ogni solitudine che aveva bussato alla mia porta ogni sera col suo carico di dolore, a presentarmi il conto, fino a quando non l'avevo conosciuta.
Lei, la mia donna, la mia compagna, la mia vita che ora generava altra vita che avrebbe avuto i suoi stessi occhi e gli stessi capelli, lo vedevo già, scorazzare sulla stessa spiaggia, a rincorrere i gabbiani.
Mi chiedevo che avevo fatto per meritarmi quel momento di felicità che stava scoppiandomi il cuore.
Continuavo a ripetermi che era un sogno e che mi sarei svegliato presto, ritrovandomi nella mia stanza assieme ai vecchi compagni freschi d'università, con la mia auto dalle gomme a terra e che non avevo mai preso quel taxi, che avevo sognato tutto quanto.
Ma i suoi occhi azzurri mi dicevano no, Marco, non è un sogno è davvero realtà, sta accadendo e sta accadendo a te, proprio a te.
Iniziò a piovere e come due bambini ci prendemmo per mano e corremmo a ripararci sotto la veranda del bar deserto.
La luce calò all'improvviso, avvolgendo il mare dello stesso colore greve del cielo e facendone una sola macchia cupa.
Si era fatto tardi, non vedevo l'ora di rientrare a casa, di spogliarla per spiare se già si notava qualche rotondità sul suo corpo.
Ci avviammo abbracciati verso l'auto, cercando di schivare le gocce enormi di pioggia che oramai ci avevano inzuppati.
L'ultima cosa che ricordo sono le ruote che non aderivano più all'asfalto e lo schianto contro il guard-rail.
Poi, solo mesi di bianco ovattato e voci lontane, sospeso dentro a una bolla di liquido che mi impediva ogni movimento.
Quando mi risvegliai dal coma pensai che avevo davvero sognato tutto quanto, che non era mai accaduto nulla, che Anna non l'avevo mai incontrata, che non era mai restata incinta, che non eravamo andati al mare e che non mi ero mai mosso da quella stanza d'ospedale, pur non ricordando bene come ci ero finito.
La dottoressa era accorsa in fretta, vedendo i led animarsi nel monitor, segno che il paziente della camera numero dodici aveva riacquistato le funzioni vitali.
Mi bastò il suo sguardo per capire che non era stato un sogno, che tutto era accaduto per davvero.
La voce mi uscì impastata e gutturale, impedita dalla cannula che avevo in gola ma la dottoressa capì il mio mugugno e scosse la testa.
Anna non c'era più, il mio bambino non sarebbe mai nato e il mio sogno era finito.

Ecco la mia storia, gabbiano. Sono tornato a raccontartela, oggi, forse smetterai di volare attorno a me nel piombo che grava sugli occhi, forse silenziosamente ti fermerai rispettoso ad ascoltare il mio muto grido.
Ti ho raccontato il mio sogno e di come si è spezzato.
Io ci credevo.
Ci credeva anche Anna, me lo ripeteva spesso quando al mattino, appena svegli, la cercavo con la mano, per accertarmi che fosse ancora lì e che non se n'era andata ai primi chiarori dell'alba.
Il suo buongiorno è una frase che ora suona stonata se me la ripeto.
Vuoi sapere, gabbiano, che mi diceva?
Mi ripeteva che solo sognando e restando fedeli ai sogni riusciremo a essere migliori e, se noi saremo migliori, sarà migliore il mondo.
Ora ti chiedo, amico mio, come potrò essere migliore e come potrò migliorare me stesso e il mondo se il mio sogno è rimasto cadavere sull'autostrada?
Tu, ce l'hai una risposta?
La vengo a cercare qui da te, forse tu la conosci.
Nessun altro riesce a rispondermi.