- Ce n'è benzina nel
ciao?-
- Neanche una goccia! Perché? -
- Peccato: se avessimo avuto la benzina, saremmo potuti andare a comprare le sigarette alla
vucciria -.
Quante volte abbiamo fatto questi discorsi noi palermitani, fumatori clandestini poco più che quattordicenni, timorosi delle reprimenda paterne pronte a manifestarsi, nell'infausto caso del venir colti in flagrante, non sempre (ohi noi!) in forma esclusivamente verbale, alla fine degli anni sessanta?
Mai troppe volte, mai troppo poche, ma, alla fine, un senso di stizza, mista a rimpianto, sempre pervadeva i nostri animi nel caso in cui, per un motivo o per l'altro, avessimo dovuto rinunciarvi.
Si, perché il mercato della
vucciria, per noi, rappresentava il mondo del proibito, ed il solo fatto di essere fisicamente là, anche se con il mero ruolo di attore passivo, faceva di ogni nostra incursione in quella variopinta piazza, ridondante dell'odore dolce della frittura delle
panelle commisto a quello agre della cipolla al forno, sempiterno condimento dello
sfincionello, rigorosamente “
scarsu d'ogghiu e chinu di pruvulazzu” che mai mancavamo di concederci, un vero e proprio tuffo nella trasgressione.
Forse le sigarette erano solo un pretesto, forse la consapevolezza di infrangere una “regola” rappresentava un ulteriore stimolo, forse sfidare il fato per non venire scoperti erano ragioni di per se sufficienti, per noi poco più che fanciulli, a farci sfidare con sfrontata arroganza la sorte o, forse, era più semplicemente il fascino del proibito che ci attraeva come una irresistibile calamita.
E non solo.
Era, la
vucciria, uno dei pochi luoghi della città nei quali potevi respirare a pieni polmoni quelle genuine ventate di siculo
argot, profuse a squarciagola dai venditori di pesce, di carni o di verdure, che tentavano, in tal modo, di attirare l'attenzione dei clienti con la potenza sonora dei loro slogan sovrastando, per volume in decibel e per l'acutezza spesso lascivamente allusiva dei contenuti, quella dei concorrenti.
Essendo un mercato “popolare”, dove fare acquisti a buon prezzo, va da se che la qualità delle mercanzie proposte non era propriamente da definirsi di primissima scelta, specie per quanto concerne il pesce che, nella migliore delle ipotesi, era finito su quei banconi in seguito a morte sopravvenuta, parecchi giorni prima, più per vecchiaia che per fiero combattimento in mare.
Per tale motivo i pescivendoli si davano un gran da fare, per “rinfrescare” il loro prodotto, aiutandosi con frequenti e generose
catate di acqua fresca che, quanto meno, ne mitigavano i naturali effluvi i quali, come effetto collaterale, si riversavano sul lastricato che pavimenta l'intera piazza, con una leggera inclinazione in direzione della
Cala, con dei blocchi di basolato di marmo levigati e perennemente ricoperti da una impalpabile patina sdrucciolevole.
Con circospezione trovavamo riparo al motorino, celandolo fra due autovetture parcheggiate nella vicina piazzetta alle spalle del teatro “Biondo”, con la speranza di ritrovarlo alla fine della nostra missione e con indifferenza ci incamminavamo per percorrere quelle poche decine di metri della via Roma dove il mercato, in tutta prossimità della scalinata che da lì discende verso la nota piazza, cominciava a manifestare la sua presenza con metastasi rappresentate da bancarelle di contrabbandieri di sigarette, venditori di occhiali, di preservativi sfusi, di cinture per uomo, di calze di nailon per donna, di accendisigari, di santini dell'adiacente chiesa dell'
Ecce homo.
Discesi con attenzione i gradini della scalinata, si apriva ai nostri occhi la piazza con al centro la fontanella in pietra scura che, quasi controvoglia, elargiva con sofferta parsimonia modesti rivoli d'acqua più o meno potabile, attorno alla quale si svolgevano le attività di vendita delle merci più varie, disposte con sapiente maestria nelle coloratissime, sfavillanti bancarelle sfarzosamente illuminate, anche in pieno giorno, da sproporzionate lampade penzolanti, come impiccati, da fili elettrici tutti abusivamente allacciati a quelli della pubblica illuminazione: questo evidente segno di spregio delle regole contribuiva a rammentare, se mai ce ne fosse stato bisogno, che in quel piccolo reame la
lex non era la benvenuta.
Cercavamo di darci un minimo di contegno, fare gli indifferenti ma, regolarmente, ancor prima che ci fossimo diretti verso il banchetto del contrabbandiere che ritenevamo pronto a farci lo sconto più conveniente, venivamo inchiodati sul posto da una voce roca, stentorea, proveniente dal nulla che
abbanniava: “Americane, marboro, accendigas, pitriiiiiiiine...” Facevamo fatica a reprimere il senso di disappunto provato perché il nostro aspetto, evidentemente, tradiva la mancata appartenenza a quel contesto sociale, ma, senza mai perderci d'animo, cominciavamo la contrattazione per l'acquisto delle bionde, operazione che avveniva sempre con un alone di ansia e circospezione, nonostante tutto si svolgesse alla luce del sole e nella totale, assoluta indifferenza degli astanti.
Quando ritornavamo nel nostro quartiere, per diverse ore gli odori, i colori, le urla sguaiate ed al contempo musicali, continuavano a mantenersi vivide.
Sono ritornato alla
vucciria, per caso, qualche settimana fa: oramai non ci mettevo piede da tanto, troppo tempo.
Istintivamente, mi sono sorretto al passamano della scalinata mentre la discendevo, anche se i gradini, sempre più usurati dal tempo, non fossero bagnati.
Sulle prime non vi ho dato peso.
La fontanella ha smesso di sgorgare e la sua piccola vasca, adesso, funge da momentaneo sostegno per le cassette di frutta degli ambulanti.
Le bancarelle sono sempre là, sempre coloratissime e vistose, ma le tinte cromatiche, le urla dei venditori e persino il coccodrillo impagliato che penzola dal tetto di un negozio di spezie, hanno perso il calore, la spontaneità.
Il tutto imbastardito dai sempre più numerosi ed invasivi negozi di cianfrusaglie cinesi.
E, come se tutto questo non fosse sufficiente ad elevare la mia depressione al livello di ragionevole incazzatura, il selciato della piazza era perfettamente asciutto.
Mi venne istintivo pensare a mio padre: mai più, con i miei figli, avrei potuto fare come lui che ad ogni richiesta, da parte mia o dei miei fratelli, considerata irrealizzabile (“Quando me lo compri il motorino?”, “Quando posso cominciare a fumare in casa?”, “Quando posso partire assieme alla mia ragazza?”) sempre, sornione e rassicurante ci rispondeva:
“Quannu s'asciucanu i balàti d'a vucciria”.P.S.: non so, e poco in realtà mi interessa sapere, cosa andasse a mangiare Andrea Camilleri alla vucciria ordinando
“'u panu 'cu a meusa”, ma, se questa citata è realmente l'espressione da lui adoperata, non faccio fatica ad immaginare in che considerazione prendessero i miei concittadini, allora come ora, le sue grottesche e volgari storpiature della
Lingua siciliana e palermitana in special modo. Tuttavia, se, per caso, vi trovaste a Palermo, possibilmente nella tarda primavera, e vi venisse la voglia di provare un voluttuoso brivido gastronomico, recatevi presso una qualsivoglia
focacceria (locale dove si vende
“u pani c'a meusa”) e, al momento dell'ordinazione, quando sarà giunto il vostro turno, se volete godere di rispetto regale, rivolgetevi senza esitazione all'uomo, di solito ben in carne, che sta dietro il pentolone traforato nel quale si prepara la pietanza, con l'espressione:
“Assà mi 'nni cuonza una maritata”. Non ve ne pentirete.
Piccolo glossario per stranieri
(straniero è chiunque non sia palermitano)
“panelle” = Frittelle piatte, rettangolari o rotonde, fatte con farina di ceci, acqua, sale e prezzemolo;
“sfincionello” = Pane pizza, morbido e lievitato, di consistenza spugnosa, cotto al forno condito con una salsa a base di pomodoro, cipolla, acciuga e formaggio a pezzetti;
“scarsu d'ogghiu e chinu di pruvulazzu” = Povero di olio e pieno di polvere;
“catate” = Secchiate;
“abbanniava”, da abbanniare = Richiamare chiassosamente i clienti;
“balàte” = Massi in pietra dura, rettangolari, usati per pavimentazione stradale;
“Quannu s'asciucanu i balàti d'a vucciria” = Quando le pietre della pavimentazione della vucciria si asciugheranno (cioè mai, si pensava);
“u pani c'a meusa” = Il pane con la milza (e il polmone di vitello, tagliati a sottili fette, rosolati nella sugna);
“Assà mi 'nni cuonza una maritata” = Me ne condisca una con la ricotta.