Ho deciso che voglio scrivere fottendomene altamente le palle della qualità del suddetto scritto.
Perché succede che per mazzi, cazzi, frizzi e lazzi, dirotti ciò che è sempre stata la tua scrittura di pennivendola cercando una dimensione che non ti appartiene in primis e che ti fa sudare sette camicie per arrivare in fondo a tremila caratteri spazi esclusi, ovvero la lunghezza perfetta per non fare addormentare a monitor eventuali lettori.
Lascio dunque da parte tutti i sofismi e gli intellettualismi del caso a vado a penna libera.
No, perché poi c’è una cosa da sottolineare: che i sofisti intellettualoidi, col cazzo che poi scendono dal loro scranno per dirti non dico oh bella cosa che hai scritto, ma proprio niente di niente, sono troppo impegnati a lisciarsi le loro penne di pavone che vogliono lucide, senza accorgersi che sono già brillanti dalle gocce di saliva lasciate da chi altro non sa fare se non accrescere gli ego di chi già li ha ben posti sul piedistallo.
Dall’altra parte ci sono invece quelli che non gliene frega una benemerita mazza di lodi e imbrodi anche se ne avrebbero diritto ed a pieno titolo; questi, che nella tua testa sono molto ma molto più in alto di te, vengono ad incoraggiarti.
Io li amo, questi, si capisce?
Questo incipit non c’entra nulla con ciò che volevo scrivere ma anche sì: domani è l’otto marzo, la festa della donna.
Io dico la festa dei fiorai, gli incassi che faranno domani sono al top dei registri dei corrispettivi, assieme a quelli del giorno di San Valentino e della festa della mamma, perché ipocriti siamo per tre giorni all’anno. Gli altri trecentosessantatré possiamo evitare di mostrarci nel nostro vero volto.
Non voglio fare la professoressa per ricordare da cosa nasce questa ricorrenza: se qualcuno non lo sa, si informi.
Voglio ricordare, invece, gli otto marzo dei miei diciassette e diciotto anni, quando era una gioia trovarsi in piazza coi banchetti a urlare slogan di cui conoscevi la forma ma non la sostanza: anche io urlavo col dito orgasmo garantito ma non avevo, ai tempi, il contraltare per contrastare la mia affermazione.
Voglio ricordare le compagne con le gonne fiorite lunghe fino alle caviglie, le guance disegnate con il simbolo dell’anarchia e le ghirlande di mimose in testa, a ballare le musiche della Nuova Compagnia di Canto Popolare.
Che è rimasto di quegli otto marzo?
Ora ascolto alcune donne, mi sembrano tante oche starnazzanti che aspettano solamente l’otto marzo per andare a cena fuori, se poi il locale propone pure lo streep tease maschile integrale, ancora più agitate sin dalla sera prima.
Cazzo, ma le altre sere cosa siete, impedite ad uscire?
Dove aspettare l’otto marzo per vedere un pisello pendulo oscillare?
Ecco perché se qualcuno domani mi offre una mimosa lo sbrano, lo mangio di traverso e, guardandolo dritto negli occhi, gli chiedo: “ma mi pigli per il culo?”
Il mio otto marzo è qui, nella frase di Iaia Caputo che incollo alla fine, che non è stata scritta per questa data ma per ogni altro fottuto giorno che noi, donne, ci troviamo a vivere.
Marzo, Luglio, Novembre, in un susseguirsi di giorni dove l’umore va e viene, alle gioie insensate seguono le mazzate di delusioni.
E noi sempre lì, un giorno con le spalle dritte e l’altro giorno con la schiena curvata.
Ma ci siamo sempre, anche quando vorremmo sparire e diventare impalpabili e trasparenti, che nessuno, oltre noi stesse, ci possa vedere accogliere ed ascoltare.
Senza data alcuna e senza mimose gialle.
Io preferisco i tulipani.
Rossi.
Voglio essere obliqua, spiazzata, confinante, incerta.
Né saprei dove altro mettermi,
dove altro stare,
se non in questa incerta collocazione,
l'unica che mi consenta di restare fedele a me stessa.
Di restare,
nonostante gli sconfinamenti e la confusione,
le continue reinvenzioni e la solitudine,
il dolore e la fatica,
una donna.
Iaia Caputo