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 Una voce all'infinito

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Marisa Amadio
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MessaggioTitolo: Una voce all'infinito   Una voce all'infinito Icon_minitime11/11/2010, 20:54

Questo è il racconto di una storia realmente accaduta, frammento di un passato lontanissimo e misterioso che attraverso le narrazioni di mia nonna e di mio padre è arrivato fino a me. Magicamente mi ha proiettata a ritroso nel tempo, un tempo senza date e senza altri riferimenti di rilievo, dove la fantasia ha colmato la lacune narrative trasformando poche parole in una storia. Ed ecco una voce all’infinito, per raccontare della dura contrapposizione tra uomini e lupi nella lotta per la sopravvivenza e di Zuanne, l’avo più lontano, che non s’è perso nell’oblio del passato.

-Mamma, perché la luna ha gli occhi tristi?
-Dove li vedi gli occhi sulla luna? Sorrideva sua madre.
Zuanne, trascorreva tanto tempo a scrutare la luna quando, bella piena, troneggiava nel cielo come una regina. I suoi occhi di bambino ne coglievano un’espressione perennemente tragica e sofferente che non riusciva a spiegarsi e a descrivere alla madre con la sua semplicità di fanciullo.
-Sarà che da lassù osserva tutte le nostre miserie - pensava - e ne è impietosita. Sarà che non può far nulla per alleviarle se non regalare la sua luce d’argento.

Era quella una sera d’estate. Le abbondanti piogge primaverili avevano riempito i torrenti e i corsi d’acqua minori che solcavano le colline. Il fosso, che scorreva vicino alle case, rumoreggiava come una cascata.
Faceva caldo, più caldo del solito, ma forse era una sensazione condizionata dagli eventi e l’afa soffocante portava con sé un’umidità insopportabile.

Dal Col de Fer, il colle più alto, un castello sovrastava la piana sottostante formata dall’incontro tra due valli, e consentiva una buona panoramica su una zona importante di collegamento tra la pianura e la montagna e tra la pianura veneta e quella friulana.
La sua terra ricca di ferro conferiva al suolo un colore rossastro che aveva suggerito il nome dell’altura, ma c’era anche un’altra interpretazione legata a quel nome: la sua inespugnabilità da parte dei nemici.
Il castello era costituito dal mastio, situato sulla sommità del colle e dal borgo, adagiato sulle pendici sud-occidentali e meridionali, entrambi delimitati da una vasta cinta muraria. Al suo interno lo spazio era contrassegnato dagli orti e dai terreni recintati, collocati su gradoni e dalle case dei suoi residenti, i castellani, come erano chiamati i privilegiati che vivevano dentro le sue mura.
Esternamente c’era il popolo, non molto numeroso in verità, che abitava nei piccoli agglomerati di case, sparse qua e là, che formavano il villaggio di Caneva.

Zuanne, a Caneva era nato e vissuto. Era un ragazzo molto sveglio, due grandi occhi scuri che spiccavano su un viso magro, solcato dalla fame. Il sorriso era quello dolce di bambino, quello dei suoi tredici anni, anche se le asprezze della vita lo avevano già segnato.
Una vita tutt’altro che facile, ma si sentiva protetto dalla sua famiglia e soprattutto dalla figura imponente di suo padre. Quell’omone che lo trattava ormai come un uomo fatto, dal quale riceveva ogni tanto una pesante pacca sulla spalla, segno di approvazione e stima.
-Domani, ragazzo, le bestie le porterai a casa un po’ prima, qui ho bisogno anche di te.
-Come volete padre…ma…in cosa vi devo aiutare?
-Ne parliamo stasera.
Zuanne sapeva, nello stesso momento in cui pronunciava quella domanda, che il padre non gli avrebbe risposto. Tutto doveva rimanere nel silenzio, quasi che una parola sfuggita potesse arrivare a orecchi che non dovevano udire.

L’alba si profilava all’orizzonte, quando il ragazzo uscì di casa. Era una mattina come tutte la altre. Mille raccomandazioni lo avevano seguito fin sull’uscio e anche oltre.
La voce di sua madre gli arrivava a tratti, quasi a volerlo accompagnare nel suo andare.
Ogni giorno svolgeva le proprie mansioni, stabilite da suo padre il capo famiglia, sempre le stesse azioni quotidianamente invariate, divenute rituali indispensabili al buon funzionamento della vita familiare.
-Ciao mamma, stai tranquilla, stasera ti porto un po’ di more mature, ho visto che i rovi ne sono pieni.
- Vai Zuanne, vai e torna prima del buio. Mi raccomando e stai attento a non perdere le bestie!

I colori struggenti dell’alba sfumavano nell’azzurro intenso del cielo, dove una pallida luna si attardava a farle compagnia. Un cielo limpido, senza neppure la sbavatura di una nuvola, prometteva un’altra calda giornata d’estate.
Il ragazzo fece uscire gli animali dal recinto, erano poche capre e pecore che portava al pascolo nei prati sotto le colline. Attraversava alcuni terreni nel suo andare e si fermava giusto il tempo di consentire agli animali di brucare un po’ di erba.
In quei momenti guardava, ammirato, i tralci delle viti che trovavano sostegno sugli olmi e sugli aceri, sui frassini e sui pioppi, sparsi in maniera più o meno fitta e regolare.
– Prima della vendemmia- si riprometteva - riempirò questa pancia vuota di uva dolcissima,
ci riesco ogni anno a rubare qualche bel grappolo e nessuno se ne è mai accorto!

Accanto a quei vigneti si trovavano piccoli appezzamenti che venivano seminati a frumento, avena o sorgo rosso, li attraversava facendo attenzione che gli animali non causassero danni, più in là c’erano i prati, dove lasciar pascolare il bestiame. In quei momenti Zuanne si sdraiava volentieri sull’erba soffice, con le mani incrociate sotto la nuca e si lasciava scaldare dal sole come fosse una morbida coperta.

Quel giorno, fiancheggiando il Rui, aveva deciso di raggiungere la sua sorgente a metà collina. E’ una terra di risorgive questa. Il fosso pieno d’acqua solcava, gorgogliando, il colle e scendeva nella piana sottostante scorrendo, per un breve tratto, anche vicino alla sua casa.
Giunto che fu lassù si fermò, fece scendere gli animali giù per la scarpata fangosa ad abbeverarsi all’ombra degli ontani e lui si sedette poco più in là tenendosi però vicino agli alberi. Era quello il luogo magico in cui dialogava con se stesso, dove si sentiva un uomo, dove ripensava a quello che aveva sentito dire dai grandi ed esprimeva la sua opinione, senza che nessuno lo zittisse:
-Credo che il raccolto di Toni quest’anno non andrà bene come lui va in giro a dire. Ha piovuto troppo e buona parte marcirà.
- Maria… proprio non lo vuole Giobatta. Ho sentito che lo diceva a mia sorella l’altro giorno. Lo sposerà lo stesso però, perché il suo parere non conta nulla, e lui ha campi e bestie, insomma, è uno che sta bene di famiglia…nonostante questo però, non riesce proprio a farselo piacere quel ragazzo.

Poi, un rumore lo distolse dal suo fantasticare, e lo mise in allerta. Agilmente si arrampicò su uno degli alberi, su, su, più in alto che riuscì ad arrivare.
Lì in cima, nascosto tra i rami, ripeteva a bassa voce come una litania :
-”Signore fa che se ne vada, fa che il vento soffi altrove e non porti a lui il mio odore. Signore fa che non s’accorga che io sto quassù con le gambe molli per la paura e la lingua asciutta, senza più il fiato per poter urlare e chiedere aiuto”
Le esortazioni di suo padre gli mettevano inquietudine, ma si rendeva conto che erano importanti. Gli ripeteva di stare sempre in ascolto, vigile, di prestare attenzione ai rumori strani, e gli aveva insegnato ad arrampicarsi sugli alberi se si fosse trovato in una situazione di pericolo.
Quella, dove sorgeva Caneva e il suo castello, era stata, da tempo immemorabile, la terra dei Lof, i lupi. Cacciatori coraggiosi e fieri che qui avevano vissuto prima che gli uomini occupassero queste lande. Ora, della loro fierezza era rimasto ben poco, nei loro occhi si leggeva la stessa disperazione e la stessa fame degli intrusi e rappresentavano un pericolo a causa delle loro aggressioni agli animali e anche a coloro che li custodivano.

Il rumore sospetto fu solo un falso allarme, Zuanne scese dalla pianta e continuò ad osservare le bestie che pascolavano o si stendevano per terra a riposare. Si sentiva grande, a lui affidavano i compiti più impegnativi. Accompagnava il padre nella palude, con quel loro carretto sgangherato, a caricarlo più del possibile di strame e canne. Là, dove aveva imparato a pescare qualche pesce che per un altro giorno, senza sfamarli, gli permetteva di andare avanti.

Rientrò a casa nel pomeriggio quando il sole era sceso fino all’orizzonte, rosso come il fuoco, e infiammava tutto il borgo colorandolo con quel riflesso amaranto.
Alla sera, prima di cena, tutta la sua numerosa famiglia, nonni, zii, zie e cugini, si era raccolta intorno al focolare. Avevano recitato come al solito il rosario e lì si sedettero dopo il misero pasto, con un bicchiere di vino in mano come nelle grandi occasioni.
I racconti di chi aveva visto le belve e di coloro che riportavano i passaparola, creatori di catene infinite e fantasiose, venivano ascoltati da tutti con grande curiosità.
Zuanne, seduto accanto agli adulti e ascoltando in silenzio, comprendeva ora la gravità del momento e l’importanza che avrebbe assunto quella notte, ma soprattutto cercava di nascondere la propria paura.
Tutto era stato deciso, tutto era pronto. In quei giorni si era percepita per tutto il borgo un’insolita atmosfera, gli uomini avevano lavorato all’incrocio dove si congiungevano i sentieri che scendevano dalle colline. Da quel punto in poi si allargavano fino a diventare un’unica stradina sterrata, che portava direttamente alla principale via di collegamento con tutta la fascia pedemontana e la pianura antistante.
Avevano lavorato fino a non sentire più le mani e le braccia, le schiene erano a pezzi, ed ora non rimaneva loro che aggrapparsi alla speranza, che da quel momento si rafforzava.

Era l’occasione decisiva per stabilire chi fosse il più forte e sarebbe stato il padrone indiscusso di quelle terre e chi invece, al contrario, avrebbe dovuto soccombere e abbandonarle.
Quella notte, col trascorrere del tempo, la paura era accresciuta togliendo a tutti il sonno, e i piccoli infilavano la testa in grembo alle madri, tappandosi le orecchie con le piccole manine. In loro quelle emozioni si fondevano con l’eccitazione per un evento straordinario, diverso dalla monotonia delle giornate sempre uguali.
Anche Zuanne non volle dormire e rimase in ascolto.
Ed ecco, dalla fitta boscaglia lassù sulla collina, arrivare i primi ululati di richiamo. Gli uomini avevano ormai imparato a riconoscerli e a conoscere come si muoveva ed agiva il branco. Non doveva essere molto numeroso, non erano però mai riusciti a contare gli animali che lo componevano, e questo ne aveva aumentato la prudenza.

Il capo branco si stava preparando alla discesa e tutti gli altri lo avrebbero seguito, tanto era forte in quelle fiere il senso della collettività. Rimanere uniti significava avere più possibilità di successo nella caccia e quindi non morire di fame: quella era una zona povera e la miseria non perseguitava solo gli uomini.

Il branco cominciò a muoversi, gli ululati erano sempre più vicini, più acuti, più tremendi.
Poi tutto si fece quieto, ma la presenza delle fiere si percepiva nonostante la silenziosità e la fluidità dei movimenti.
Era solo questione di poco tempo ancora e si sarebbero sentiti i rumori di rami spezzati, di tonfi e di guaiti, di ululati di dolore e di ferite mortali.
Il primo a cadere nella fossa fu il capo branco e di seguito gli altri più prossimi a lui. L’animale scelto come vittima sacrificale aveva condotto il loro sensibilissimo olfatto fino alla trappola mortale.
Imbrogliati nei sensi, non videro oltre i rami messi ad arte sopra un intreccio di canne di palude per celare l’inganno.
Nel borgata nessuno sarebbe uscito ancora, bisognava attendere che il resto del branco, riconosciuto il pericolo, arretrasse di nuovo verso le alture e le proprie tane, perchè quella non sarebbe stata notte per la caccia.
La fame, che stringeva in una morsa dolorosa i loro corpi magri, li rendeva disorientati e per un po’ incapaci di desistere, confusi da quel pericolo inatteso.
Gli ululati diventarono ringhi di rabbia e dolore, ma alla fine i superstiti decisero di ritirarsi.
Albeggiava quando, lentamente, dalle case uscirono ombre di esseri umani, coi volti tesi, muniti delle armi occasionali trovate in casa, tutto ciò che potesse essere necessario per difendersi.
Zuanne si preparava a seguirli ma qualcuno lo fermò, rimase così, deluso, sulla porta di casa ad aspettare…

E’ in questo modo che ho sempre immaginato fosse andata, mentre ascoltavo rapita i racconti
di mia nonna e di mio padre, e nonostante le date e i riferimenti storici si siano persi con il
trascorrere del tempo, non ho mai dubitato della veridicità del fatto accaduto.
Il tempo allora, appariva sempre uguale e misurarlo era l’ultimo dei pensieri. A scandirlo
era il trascorrere delle stagioni, con gli stessi mestieri, le stesse incombenze, giorno dopo
giorno, gesti sempre uguali divenuti rituali di vita, come le feste religiose e pagane che
portavano un po’ d’allegria e distoglievano per poco dalla triste quotidianità.
La vita non dava garanzie di un futuro, ogni mattino era un dono del cielo. Le nascite e le
morti venivano riportate nei registri parrocchiali e solo lì si conservavano le tracce del passaggio
in questo mondo di quelle persone. Una di esse fu Zuanne.

Nel borgo, che oggi si chiama Via Lovere, vivono ancora alcuni discendenti di quegli
uomini. Essi vollero dare a questa località un nome che ricordasse quanto vi era avvenuto e
da allora si chiamò “ Bus dei Lof “, ossia buche dei lupi nel dialetto locale.
Non per ricordare una vittoria o una sopraffazione, ma semplicemente a memoria di
quell’avvenimento che nella vita di una piccola comunità lasciò un segno indelebile, segno
da trasmettere a chi sarebbe venuto in seguito.
Quanto ai lupi, i sopravvissuti a quell’agguato, con molta probabilità, ormai allo sbando e
senza più una guida, si allontanarono da quelle terre alla ricerca di un nuovo branco.
Quegli animali vissero le stesse sventure degli esseri umani, ma incarnarono nell’immaginario
collettivo la figura del nemico, considerati alla stregua di un pericoloso fuorilegge.
Erano animali coraggiosi ed intelligenti, con una notevole adattabilità e non avevano intenzione
di soccombere nella contesa del territorio e del cibo con l’uomo.
Si succedettero gli anni e le persecuzioni e la progressiva distruzione dell’habitat costrinsero i
lupi, ancora presenti, ad arretrare sulle alture oltre le colline, relegati nei boschi finché, molto
tempo dopo, scomparvero.

Zuanne fu un mio avo. Egli non sapeva scrivere ma, grazie al potere della tradizione orale,
riuscì a far arrivare questa storia fino a mio padre, affinché la custodisse e la mantenesse
viva nella memoria attraverso i suoi discendenti.


Le informazioni storiche e i nomi dei luoghi, qui riportati, mi sono stati forniti da mia nonna e da mio padre che ringrazio.
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MessaggioTitolo: Re: Una voce all'infinito   Una voce all'infinito Icon_minitime17/12/2010, 15:08

Scritto molto bene, risalta l'atmosfera dei tempi, quelli semplici e affamati, ma veraci. Ho vissuto anch'io in posti simili e i ricordi sono gli stessi. Camini davanti ai quali si diceva il rosario, il tempo segnato solo dalle stagioni e dai raccolti e il ritmo delle semine.
Le leggende e le storie che segnano i ricordi dei contadini dovrebbero essere scritti in un libro, ci sono credenze maestose, assurde o logiche ma sempre con una radice di vita vera.
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MessaggioTitolo: Re: Una voce all'infinito   Una voce all'infinito Icon_minitime17/12/2010, 17:56

Un racconto che riporta fedelmente atmosfere, abitudini, difficoltà e povertà di tempi lontani, ma non lontanissimi. Conosco i luoghi che hai descritto e questo mi fa apprezzare ancora di più l' apprezzabilissima narrazione. Un caro saluto.
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Marisa Amadio
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MessaggioTitolo: Re: Una voce all'infinito   Una voce all'infinito Icon_minitime18/12/2010, 15:53

La memoria è ingannevole e, col trascorrere del tempo, tutto modifica o perde nel dimenticatoio. Con questa pagina ho voluto rendere indelebile il ricordo di un racconto che mi riporta alle mie radici.
Grazie di aver letto e lasciato un commento.
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MessaggioTitolo: Re: Una voce all'infinito   Una voce all'infinito Icon_minitime

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