SCHEGGE ARABE - TURI RUBINO

Questa l’ho recuperata qualche sera fa. Stava nella memoria del mio amico Toni, un tipo dalla straordinaria capacità di osservazione, che non a caso fa il fotografo. Un cabarettista mancato, giuro.
È roba vecchia, roba di quando eravamo picciottelli squattrinati e pranzavamo fuori della scuola con un pane e panelle da cento lire…
Si riferisce alla Vuccirìa, perché è soprattutto lì che per noi palermitani si concentrano i ricordi di certe trattative, di un mercanteggiare che ci apparenta agli antenati arabi, ma con la sostanziale differenza che deriva dal nostro smisurato orgoglio: niente questue, niente accattonaggio. Il palermitano tratta dall’alto di un’aristocratica indifferenza, da una posizione di forza che si ostinerà sempre e comunque ad esibire anche se è ridotto con le pezze al culo.
Questa "scheggia", questo frammento, per venire al dunque, riporta le istruzioni ch’era allora opportuno tenere a mente per l’acquisto di un accendino di contrabbando.
E sì perchè alla vuccirìa mica ci si andava per la frutta e verdura, il pesce o quant'altro uno s'immagina di trovare al “mercato”.
Noi c'andavamo per la roba di contrabbando.
Si risparmiava qualcosa, ed era così... così da delinquenti!
Ma veniamo al dunque:
- Fermare il motorino in via Roma.
- Scendere e attaccarlo a un palo con la catena sennò se lo fottono appena girati gli occhi.
- Rialzarsi, stiracchiarsi e muoversi con studiata ma naturale indolenza, come se le gambe si muovessero “ammuzzo” (a casaccio, per intenderci)  e non si avesse un cazzo da fare.
- Scendere la gradinata e raggiungere il casino della piazzetta dove in mezzo ad ogni sorta di mercanzia, i contrabbandieri tengono i loro minuscoli banchetti che espongono accendini e pacchetti di sigarette, uno per ogni marca e tipo disponibile quel giorno.
- Avvicinarsi, guardare senza mostrare alcun interesse per la merce, e trovare il falso Dunhill placcato oro per cui si è venuti fin qui.
- Chiedere, indicando un Ronson qualunque: “quant’è u dannu picchistu?”
- Sentirsi rispondere “Tremila” dall’ossuto titolare che vi ha sentito benissimo anche se sembrerà parlare col gatto acquattato sotto il bancone del pescivendolo accanto.
- Prendere allora in mano il Dunhill che v’interessa, esaminarlo con aria perplessa e chiedere: “e chist’avutru?”
- Quello, che avrà comunque capito la situazione, dirà: “settemila”.
- Replicare: “Quattromila”, e sentire rispondere al contrabbandiere, sempre rivolto al solito gatto, “nun pò essere”.
- Rimettere l’accendino al suo posto, sul banchetto, e andarsene a passo lento.
- Contare i propri passi: uno, due…
- Entro il tre una voce alle spalle dirà: “Venisse ccà”.


Altra scena, altro mercato... ieri come oggi, tutto sommato.

La signora della Palermo–bene non frequenta abitualmente quella sorta di souq marocchino che è il mercato di Ballarò (“al balhara” per gli arabi... stavano qui mille anni fa), ma può venirle voglia di andarci, di tanto in tanto, magari con un’amica, perché fa esotico.
In certi ambienti, poi, il “vecupevo delle matvici cultuvali” o il “contatto con la vealtà più vevace” della nostra città sono roba molto chic, rispetto alla quale potersi raccontare come protagonisti garantisce, fra un sorso di tè e un pasticcino, sicuri apprezzamenti salottieri.
E poi, vogliamo mettere… l’esaltante commistione fra ribrezzo per la sporcizia (può capitare anche qualche grosso sorcio sotto i cassonetti della munnizza), l’allerta per i sempre probabili scippi, i brividi gelati su per la schiena per lo sguardo del giovane pescivendolo che in tre secondi ti mette incinta nel bel mezzo di quel casino di colori odori rumori, l’imbarazzo nella ridicola obbligatoria recita della trattativa sul prezzo (certe cose, se non le hai nel sangue, e se non hai bisogno veramente di risparmiare i soldi, perché veramente non ce li hai, non le puoi fare come di giusto!), la curiosità per tanti piccoli sketch di diversa pittoresca umanità (la popolana che cafudda un timpulune da antologia sul cozzo del picciriddu di tre anni che insiste a tirarle la sottana perché vuole accattata a pullanchella – il vecchietto che parla col panellaro e gli dice che “Bin Laden allora è vero sbirru!”…), il martirio dei timpani per gli improvvisi agguati di Tony Bruni o di Tano Zappulla scatenati dagli altoparlanti dei venditori di cassette pirata…
La signora della Palermo – bene, nonostante che abbia rinunciato all’oro e abbia scelto un abbigliamento comodo e pratico, è comunque piuttosto riconoscibile anche da parte di un profano che la osservi ad occhio nudo… figuriamoci come risalterà vistosa attraverso i raffinati detector dei putiari e degli ambulanti!
È un fatto di mille indizi, è inevitabile.
Anche se avesse un maglione vecchio e un gonna dozzinale, le scarpe di un negozietto di periferia invece delle Tod’s che indossa, se avesse rinunciato del tutto al fondo tinta, a un filo impercettibile di rimmel, all’appuntamento settimanale con Theo il parrucchiere, alla regolare scontata perfetta cura delle mani, al Breil da battaglia al polso… bè, anche allora uno qualsiasi di questi putiari riconoscerebbe la sua vera appartenenza da un semplice gesto o da un’alzata improvvisa del sopracciglio.

La signora si avvicina dunque ad un banco di frutta e verdura e, aspettato pazientemente il proprio turno cercando di toccare qua e là come vede che fanno tutti, chiede due chili di pesche montagnole.
Il fruttivendolo prepara un bel coppo di carta e lo riempie di pesche pigliandole a due a due. La signora nota che ogni tanto finisce nel coppo qualche frutto ammaccato, mezzo marcio per dirla tutta, e in un impeto che non le appartiene ma che il mercato ha saputo trasmetterle, esclama: “Senta, mi scusi, ma mi sta dando anche le pesche mavce!” Il fruttivendolo, un uomo in canottiera, bruno e tozzo,  si ferma, ancora chino sulla cassetta, e la guarda fisso da sotto in su. Poi si rialza, molto lentamente, sempre tenendola lì inchiodata con quei suoi occhi di carbone, e dice: “Signora bella! E che è? I cose frarice l’aviemu a ddari tutte all’avutri?”