Era il viso di un combattente.
Nella penombra azzurrina quell’espressione scultorea giaceva immobile da 600 anni.
Immobili le membra, una volta ardite e scattanti. La dura disciplina alle arti di guerra lo avevano forgiato ai rigori delle campagne belliche, alle lunghe e rovinose giornate di battaglie, alla resistenza ai pericoli, alle mille insidie e agguati degli eserciti nemici.
Era il viso di un comandante d’armata che un abile scultore, probabile discepolo di Leonardo, aveva immortalato nella sua ultima impronta di giovinezza. La morte lo aveva colto nelle campagne di Ravenna mentre inseguiva un drappello di nemici.
Era il giorno di Pasqua di Resurrezione.
In quel tragico paradosso evocativo si era spezzata per sempre la vita di un uomo.
Ma qualcosa in quel sonno reso eterno, rendeva il suo viso vulnerabile. Tenero, bello. Le labbra piene quasi morbide sembravano palpitare ancora di vita nonostante gli occhi fossero chiusi, come in attesa di risvegliarsi da un brutto sogno, come se la morte fosse solo l’invenzione di un artista scultore.
Mi avvicinai, attratta fortemente da quella luce filtrante, da una forza che veniva da un potere insondabile e senza rendermene conto mi chinai e lo baciai.
Baciai le labbra di Gaston de Foix.