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Antefatto… molti anni faQuattro amici.
O forse meglio dire buoni conoscenti.
Tutti della stessa leva, ex compagni di scuola, con strade, scelte e personalità diverse, ma con la comune passione per il mare.
Nicolò studente di Ingegneria, un borghese ribelle, nella normalità parlava a raffica, ma diventava balbuziente con le donne. Scherzosissimo, taccagno oltre ogni limite, ma altruista e di gran cuore.
Cesare il serio, il già uomo, il formato, l’educato e l’equilibrato. Con un piede già in politica, benestante, la fidanzata fissa di sempre e da sempre.
Luciano studente di Architettura, chiamato il conte dagli amici per la sua erre moscia, l’unico che viveva già da solo, l’estroverso e goliardico e quello con la casa libera.
Vittorio albergatore e ristoratore, alto come una pertica, eterno bambinone, scavezzacollo, a volte bastardo, a volte ingenuo, proprietario del Gambalunga II, la barca sulla quale regatavamo.
Quella tarda mattinata di una domenica ci vide uscire dal porto e prendere il largo con la solita temerarietà spavalda. Ci vantavamo sempre con gli altri velisti che noi uscivamo dall’ormeggio con le vele per il semplice motivo che sulla barca il motore non c’era … faceva troppo peso.
E prendevamo in giro i velisti della domenica che dicevano sempre “Non c’è abbastanza vento!” e prendevano il sole sulla coperta con la puzza sotto il naso e quando poi il vento arrivava, per loro era sempre troppo.
E noi fuori sulla barca inclinata da paura a cercare le raffiche più forti ed inseguire le altre vele che vedevamo al largo.
Avevamo 20 anni.
Nel pomeriggio entrammo in porto col vento forte e ammainammo la randa solo all’ultimo per arrivare con un po’ di abbrivio al nostro ormeggio.
Mettemmo tutto a posto, piegammo le vele, ci salutammo ed ognuno se ne andò via.
Cesare prese la sua Vespa Primavera 125, uscì dal porto e ad un semaforo cadde da solo, quasi da fermo e morì sul colpo.
Anni fa il casco lo mettevano solo quelli con le moto grosse. Uno degli incidenti più stupidi che abbia conosciuto. Ma Cesare aveva picchiato di testa, purtroppo.
Dall’antefatto ad oggi.Cesare era figlio unico. I suoi genitori hanno vissuto questi anni in modi differenti fra loro.
La mamma è insegnante di italiano e storia alle superiori.
Il padre ha una grossa rivendita di materiali edili all’ingrosso ed al minuto.
I coniugi Parodi sono entrambi benestanti, hanno molte proprietà, sono dei signorotti in questo panorama locale.
Il Geom. Parodi, dopo la scomparsa del figlio, si è recato puntualmente a tutti i funerali, rosari ed esequie, specialmente quando sono ragazzi o giovani. Ha un modo tutto suo di commemorare gli altri defunti: passa dal dolore per la perdita di un conoscente alla malcelata contentezza di non essere il solo ad aver subito tale perdita. Ed ogni volta parla sempre di suo figlio. Sembra che usi le commemorazioni dei figli altrui per commemorare il suo.
Anche fuori dai funerali, ogni volta che incontra ragazzi, amici o coetanei del suo Cesare, attua una sorta di rimprovero a chi è vivo, per il solo fatto che è vivo. In questi anni ci ha biasimato, a volte tacitamente, a volte più marcatamente, di avere una famiglia, figli, mogli, o di fare questo o quest’altro ancora, di avere una moto o macchina nuova, solo perché noi abbiamo potuto ed il suo Cesare no.
La Prof.ssa Parodi è stata in tutto questo tempo una gran signora. Ha continuato ad esercitare l’insegnamento sino alla pensione ed allo stesso tempo continuava nel pomeriggio a tenere la contabilità del marito nell’azienda di famiglia. Sempre molto elegante ma non vistosa con la sua bicicletta da donna nera e i suoi chignon curatissimi. Esternamente ha vissuto il suo dolore con apparente distacco, almeno in confronto al marito, e parla del figlio in poche occasioni e con poca gente.
Vivono in una bellissima villona nel centro. Una delle poche che non è confinante o con muri in comune con altre case. In stile Liberty è senza dubbio una delle case più belle di questo paese.
OggiÈ grande la mia sorpresa quando ricevo la telefonata della Professoressa in studio.
Vuole un appuntamento con me personalmente. Lei e suo marito. Per una questione delicata.
Da lì a qualche giorno entrano con modi cortesi, ma molto a disagio e con occhi bassi.
Non si sono mai serviti da me. Sono i classici liguri molto chiusi che, se possono, si servono per le loro faccende da altri liguri o parenti o amici di parenti, ma sempre liguri.
Quando ci sediamo in uno studiolo, parla sempre lei. Lui si alza e si siede mille volte. Lei lo rimprovera, lui si risiede e poi si rialza.
Mi parla di Cesare e racconta che la sua camera è rimasta tale e quale come il giorno della scomparsa. Ogni giorno lei o una donna di servizio che è sempre la stessa e che è a sua volta loro lontana parente, entrano a spolverare ed a tenere in ordine quella stanza.
Non hanno eredi diretti, sono anziani, e pensano a chi andranno le loro proprietà una volta che non ci saranno più. Ed hanno già disposto quasi tutto.
Ma per la loro casa hanno dei problemi.
Non vogliono che gli eredi trasformino quella villa o che facciano speculazioni, trasformandola in mini appartamenti o altro. Vorrebbero che la stanza di Cesare rimanga tale e quale nel tempo. Quanto non si sa, ma il più a lungo possibile.
Arrivano al nocciolo della questione.
Vorrebbero che io li aiuti a mettere un vincolo presso la Sovrintendenza delle Belle arti e Beni Culturali, in modo che la casa diventi intoccabile.
Rimango molto stupito di questa richiesta, ma capisco la loro motivazione.
Ci salutiamo rimandando il tutto ad un prossimo appuntamento.
I giorni seguenti appoggio sul tecnigrafo tutte le documentazioni che mi hanno lasciato e studio questa “pratica”.
Normalmente tutti quanti vogliono togliersi il vincolo ambientale o paesaggistico o della Sovrintendenza; e normalmente ci si reca negli appositi uffici per cercare di poter fare ristrutturazioni o cambiamenti d’uso cercando di scavalcare limiti e divieti.
Questa volta è diverso. I Parodi “vogliono” mettersi il vincolo, e per giunta un vincolo che di solito viene imposto da un’autorità pubblica, non da un privato.
Telefono in Sovrintendenza ad un giovane architetto che ha come competenza questo territorio e col quale ho parlato già diverse volte di istanze edilizie fra un racconto e l’altro delle nostre comuni origini.
Dopo aver spiegato burocraticamente il problema, mi dice di fargli vedere qualcosa compresa una documentazione fotografica.
La villa dei ParodiMi fanno venire da solo una domenica mattina.
Esternamente fotografo un giardino con delle alte palme ed una bellissima fontana in pietra. Ritraggo anche i bei prospetti delle facciate, che hanno cornicioni stuccati, balconi tondi e persiane verdi molto alte.
Il salone interno è bellissimo. Tutti i locali sono a volta con gli angoli a coda di rondine, la scala di accesso ai piani è tonda e in marmo, ed i pavimenti in graniglia di diversi colori.
Devo fare una carrellata fotografica ed una descrizione di tutti i locali.
La tensione è palpabile, nonostante cerchi di essere disinvolto e a mio agio.
E questa tensione cresce quando salgo le scale insieme alla signora.
La signora mi dà del lei. Il marito scappa salutandomi; immaginavo che non se la sentisse.
Arriviamo io e la signora Parodi di fronte alla porta della stanza di Cesare.
“Vede, per me questa stanza è come se fosse il mio santuario. Non faccio entrare mai nessuno, a meno che non sia necessario, è il mio modo per sentirlo ancora vivo”.
Di fronte a questa alta porta lascio gestire a lei le dinamiche.
Apre e si dirige verso la persiana che scosta leggermente per far filtrare un po’ di luce.
Si volta verso di me e fa cenno con la mano di entrare.
La camera è come le altre. Grande e spaziosa.
Un letto singolo, armadio grande, un bel tavolo scrittoio, una alta libreria. Tutto in legno pregiato.
La pulizia ed il rigore è severissimo. Non un granello di polvere. Odore di fiori che sorgono da due vasi. Un ritratto perfetto.
Ma non è questo che mi tocca.
Ci sono le pantofole ai piedi del letto, i suoi pantaloni nello schienale della sedia, un libro aperto e dei quaderni nello scrittoio, le penne in un contenitore che ritrae un campione del Genoa di anni fa, giubbotti appesi in un attaccapanni.
La parete davanti allo scrittoio reca cornici con foto singole e di gruppo, eventi sportivi e studenteschi e le foto della sua ragazza primeggiano su tutte.
“Ho voluto lasciare esattamente tutto quanto come quel giorno, è tutto uguale, anche le lenzuola e le coperte sono le stesse. Non ho voluto toccare niente o cambiare. Ogni giorno pulisco, lucido come se tornasse, anche se lo so che non tornerà, ma io sono contenta così.”
Il suo atteggiamento non è doloroso, per niente. Sorride anche. Traspare un senso di gioia da lei.
“Vede qui nell’armadio? Ci sono ancora tutti i suoi vestiti. E tutto quello che lui aveva lasciato nella stanza è rimasto tale e quale. Guardi, ho lasciato anche il suo bicchiere e l’acqua minerale sul comodino. Io vengo qui tutti i giorni, cambio l’acqua ai fiori, rimango dieci minuti e mi sento bene. Le chiedo solo un favore, se è possibile sposti il meno possibile per le foto, ci terrei molto.”
La Nikon manda flash che sono stilettate in questo ordine maniacale che per decine di anni si è ripetuto quotidianamente. Tutti i giorni. Uno dietro l’altro.
Ho la sensazione di violare, di fare un gesto che non devo fare, che non mi spetta.
Sono un intruso.
Ma sento anche il grande rispetto per questa madre, che sorride leggermente mentre scatto e scrivo un abbozzo di relazione.
Ha il piglio della professoressa, ma lei è contenta di questo che sta succedendo.
È sempre lei che mi mette a mio agio appena usciti dalla camera nella quale mi sono mosso con lucida discrezione, stando attento a non toccare e non spostare niente.
Chiude la porta, siamo fuori dalla stanza adesso.
Siamo uno di fronte all’altra, lei anziana piccolina e minuta, io alto ed impacciato, ma non per tutte le cose che ho a tracolla e ci si guarda negli occhi.
Mi prende tutte e due le mani e continua a guardarmi ed a sorridere tenendole strette nelle sue.
Quanto è lungo un’istante?
Quanta è l’intensità di un silenzio?
Quanta è grande la consapevolezza di un segreto?
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In un bar vicino alla Sovrintendenza, di fronte a olive, patatine e due bicchieri di vino, ho cominciato a raccontare a quel giovane architetto la storia di Cesare.