FOGLI DI GIORNALE A VOLARE - ANAM GAETANO BENEDETTO

Il cielo, che grava minaccioso a pochi palmi dalle teste, sembra una pancia d'asino rigonfia.
E’ sera.
Tuoni lampi gocce alla rinfusa.
Diluvia.
Guardo Alice. Siamo fermi.
Alzo lo sguardo e sorrido al balcone che ci protegge, per quel che può, dalla pioggia.
E’ piccolo e mal tenuto, dai lati spuntano rametti di chissà quale pianta; la penombra cela qualunque definizione; mi piace.
Cerco col corpo di proteggere Alice, l’abbraccio. La tengo vicina a me. Fingo di essere un uomo vigoroso; potente. Capace.
Lei mi sorride.
Non parliamo; ci godiamo quest’atmosfera delicata, e minacciosamente naturale. Quasi sfuocata.
Sento il calore del suo corpo. La morbidezza della pelle nascosta dentro la sottile giacca.
Chiudo gli occhi e annuso; l’aria è pregna dell’odore pungente della pioggia mista a quel profumo: Cartier.
Conosco quel profumo, mi ricorda il primo amore.
Piccole luci colorano la scena, gialle e stancamente opache.
L’acqua cade incessante, e subito un momento di silenzio; quel silenzio che rilassa, e non è assenza di suoni ma di rumori.

Un vaso. Non tanto lontano.
Ai piedi, petali. Rossi. Tanti.
Sparsi sul pavimento.
Il pavimento è chiaro e triste. E i petali morti, e porpora.
La luce soffusa, calda. Calma.
Voci per contorno; fatica.
Un pianoforte forse mai suonato, triste . Forse come la mia chitarra.
Una tv.
Un bel salotto per accogliere gente.  Per mostrare qualcosa.
Divani comodi e in pelle; di quel tipo che d’estate si appiccica alle cosce e ti fa sudare, e imprecare. E devi sorridere e non puoi dire al proprietario che è dannatamente appiccicoso; si è bello ma inutilizzabile, con il  caldo. E poi d’inverno è freddo. Distaccato.
Il resto della casa è un bel museo. Poche cose sembrano vissute. Oggetti senz’anima.
Souvenir di viaggi in posti da tutto compreso.
E’ da un po’ che guardo Alice mentre studia; è seduta e ha i capelli raccolti.
Alle sue spalle una grande libreria, molti titoli. Avrei una gran voglia di prenderne qualcuno e sfogliare qualche pagina. Non è il caso. Non ho assolutamente l’aria di chi ama leggere.
Ho le mani sporche; con l’aiuto di Michele, mio fratello, abbiamo portato su per tre piani, e poi installato in casa, prima una lavastoviglie, e poi in successione un forno, un frigorifero e infine una lavatrice.
Ho ancora i ferri sparsi per le tasche.
Sento Michele che parlotta con il dottor Attolini. Il padre di Alice.
E poi la voce di Alice, ora. Strane definizioni; parole che hanno a che fare con leggi, articoli costituzionali. Studierà giurisprudenza, penso.
“andiamo Samu” è  mio fratello che mi chiama dall’altra stanza, la sua voce è rilassata. Sicuramente Attolini (Alberto dottor Attoliani) avrà staccato un generoso assegno dal suo carnet.
“arrivo Michè” dico.

Alice si tocca i capelli. Sono ormai increspati.
Mi sorride, io la rassicuro; è bella uguale.
E’ vestita benissimo; jeans attillati, maglioncino. Giacca sottile. Scarpe basse.
Non ha messo i tacchi per non mettermi in imbarazzo, penso; abbiamo più o meno la stessa altezza.
E a vederla più alta, sicuramente mi avrebbe messo in soggezione. L’avrà intuito?
Il complesso dell’altezza mi perseguita da quando ero in fasce.
“a cosa pensi?” dice lei sorridendo e poi “non hai più detto una parola da quando siamo fermi sotto questo balconcino”
“penso hai tacchi …non credi dovrebbero abolirli?”
“abolire i tacchi? Tappetto, dovrebbero abolire, piuttosto, i complessi d’inferiorità, dove inferiorità sta per pseudo bassezza”
“certo certo”
Ridiamo.
Che bel caratterino! Questo però non lo dico, lo penso.

E’ un bel pomeriggio, ansima un vento fresco. Leggero. Indeciso.
Cammino piano; guardo le vetrine. Sono solo.
Mi fermo; penso che una macchina così vorrei averla persino io. E’ rossa potente e luccicante.
Un cane mi sorpassa, scodinzola. Poi una ragazza fa lo stesso. Cuffie. Tuta aderente con scritto Danza ai lati. E’bianca quella tuta, e sembra parecchio scomoda.
La ragazza tenta di raggiungere Jerry il suo cane, lo chiama così.
Poi si perdono tra le auto e i tanti fogli di giornale a volare.
Mi guardo intorno, accelero.
Alberi, vetrine, bici parcheggiate, gente un po’ ovunque. Clacsonate. Qualche nuvola.
Giro a destra per via Dante e poi a sinistra per via dei Mille.
La Feltrinelli è a poche decide si metri.
Entro. Sorrido.
Luci libri cd foto quaderni agende penne gente ferma sorrisi cuffie con i soliti cavi a spirale.
Un libro in bella mostra attira la mia attenzione.
La copertina è gialla e il titolo è attraente: Patagonia express. Lo apro, leggo qualche riga.
E’ amore a prima vista.
Prendo il libro e corro a sedermi nel divanetto che è al centro della libreria. Stranamente c’è un posto libero. Vuoto.
Primo capito. Secondo.
Poi una voce. Dolce. Sensuale.
“Bene, eccoci qua, dico sottovoce, e un gabbiano si volta a guardarmi un istante”
Mi giro di scatto.
Non credo a quel che vedo.
Alice mi guarda, sorride.
Chiudo il libro. Le mostro il titolo.
“mai letto?”
“certo, il mio preferito di Sepúlveda”
“ho preso per caso questo libro, appena entrato, mi piaceva il titolo …e la copertina, è gialla”
La osservo ipnotizzato mentre si siede al mio fianco. Non riesco a dire niente d’interessante.
La mente, bastarda, non collabora.  Quel che riesco a fare meglio è guardarla.
Ha i capelli che le scendono morbidi sulle spalle. E le labbra carnose, e ravvivate dal lucidalabbra.
I seni sono morbidi alla vista. Dita affusolate.
Poi si alza Alice. Vieni, mi dice.
La seguo.
Ci troviamo fuori, ho posato il libro distrattamente su una pila di altri titoli, uscendo.
E’ un crepuscolo vanitoso, i colori sono chiari caldi precisi.
Animati dal vento, i capelli di Alice, disegnano fantasiose figure.
Io non posso far altro che guardare. E guardare. E guardare.
Ho paura che il bum bum bum dentro il petto sia assordante, e rompa i vetri di qualche distratta finestra.
“camminiamo un po’” mi dice e poi “è da questa mattina che non fai che guardarmi, a proposito la lavastoviglie l’ho già testata …va benissimo!”
“ecco …ben.. bene..”
“ti ho riconosciuto dentro, prima, avevi la stessa aria goffa hi hi hi di qualche ora fa!”
La suoneria taglia il suo ghigno.
Le squilla il cellulare.
Con la mano destra porta all’orecchio il telefonino, con la sinistra cerca di tenere i suoi capelli fermi. Sono cavalli selvaggi. Inquieti. Passionali.
Ci fermiamo.
Poi mi porge un elastico. Sorrido.
Ecco il primo contatto col suo corpo. La mia mano nei suoi capelli.
Ci gioco un po’. Lei continua divertita la sua conversazione.
La coda non mi viene bene, e anche se porto i capelli relativamente lunghi, mi dimostro dannatamente incapace ad armeggiare con elastici e ferretti vari.
“ora devo andare” e continua con aria ironica “il tuo nome  …qual è?”
“Samuele”
“ok Samuele! Io mi chiamo Alice, ma questo lo sai già …voglio rivederti”
“anch’io”
“stasera, qui, ci vediamo qui”
“mmmmh qui …vaaa beeeene!”
“otto e mezza?”
“ok!!!”

La serata è stata molto bella.
Abbiamo passeggiato, parlato.
Poi siamo stati a cena insieme. Ho scoperto che adora il pesce come me, e beve volentieri il vino. Bianco.
L’aria è frizzante. La pioggia si concede una pausa caffè.
Le gocce annoiate si susseguono a intermittenza: hanno perso la loro forza.Tonicità.
“approfittiamo di questo momento, dai”
“la tua macchina è qui vicina? Vero?”
“si!”
“andiamo su”
Pochi passi e siamo di fronte alla Smart di Alice. E’ Blu.
Poi un bacio. Un altro.
Mille piccoli baci. E una cascata di emozioni.
Ricordi. Flash. Il mare e il profumo di certi fiori che nascono solo in altura. E il grano. E ancora quel profumo, quel Cartier che torna e ritorna. Immagini. Sensazioni. E un lungo brivido, e farfalle in festa in tutto il corpo.
“ti chiamo!”
“ci conto”
Sale in auto. Mi sorride.
Sento il rumore del motore che si avvia. Il click del cambio.
L’arancio della freccia sull’asfalto lucido.
E il suono delle gomme sul bagnato.
Un metro, due. Dieci. Cento.
Vorrei correre dietro l’auto e fermarla e ribaciarla ma mi limito a un cenno con la mano.

Insegne luminose. Strade deserte.
Alberi sgranati con dietro una lastra di burro, buio.
E’ notte. E’ stata un’intensa giornata.
C’è la musica alla radio, e luminosi led qua e là. Poi qualche pensiero.
Quanta, quinta. Cento all’ora. E il volante da battere con le dita.
Nell’aria l’odore ingannevole della pioggia, qualche nuvola e una luna timida e quasi paurosa, e a farle compagnia, in basso, una malinconica stella.
Qualche ricordo che scava il silenzio, un sorriso. Il battito di ciglia e un ghigno.
L’arbre magique che scodinzola nella penombra, ormai sfatto.
Cd dappertutto. E una rivista sportiva nel vano porta oggetti.
Poi le prime case e un sorriso che mette fine alla giornata.
Domani sarà un altro giorno. Profumato come un assolo di sax.