L'IMPATTO - MUSA MONICA PORTA

Il sogno ritornò, poco prima che piovesse. L’uomo non sentì il rumore della pioggia, il sogno lo dominava…
Alberto si riscosse dall’incubo, madido di sudore.
Si alzò e si diresse in bagno ma il suo sguardo fu catturato dalla portafinestra del soggiorno.
Imprecando, la richiuse, pagando il dazio di una doccia fuori programma.
La pioggia era ricominciata. Da giorni il sole aveva abbandonato Milano.
Ed il suo umore era peggiorato visibilmente.
Sbirciò oltre la finestra.
Vide la faccia saccente della sua anziana vicina di casa inorridire al vederselo di fronte in costume adamitico.
Il lunedì mattina avrebbe senz’altro ricevuto una mail dall’amministratore del palazzo che lamentava il gesto poco civile.
La notizia lo lasciò stranamente indifferente. Aveva altri pensieri che lo disturbavano.
Il panico notturno lo stava perseguitando, e si riversava nella vita lavorativa.
La sua segretaria non era più disposta a sopportare i suoi continui sbalzi d’umore.
Ma la pagava anche per questo, no?
Però aveva ragione. Doveva assolutamente rallentare il ritmo; il suo sonno disturbato era un chiaro sintomo di stress.
Era un uomo concreto. Non aveva mai letto oroscopi. Non sognava mai.
Fino a tre giorni prima. Il fatto che lo stesso incubo lo stesse opprimendo la notte, per lui era comunque irrilevante.
Il suo cervello aveva solo bisogno di una pausa. Sapeva di doverlo ascoltare.
Era un agente di borsa. Il suo lavoro aveva dei vantaggi.
Soldi facili, grandi soddisfazioni e, non ultimo, belle donne pronte a tutto pur di viver bene senza fatica.
Sempre a saperci fare.
E Alberto era nato con il dono di  un cervello matematico che aveva sempre nutrito con pazienza.
A sette anni era già imbattibile a scacchi. A quattordici aveva capito che poteva sfruttare il suo talento nel poker. E guadagnare.
Non era un giocatore. Freddo, misurato, determinato; tre qualità che lo definivano nel suo lavoro e lo rendevano un fuoriclasse di Piazza Affari.
Al “Russell”, l’insegnante di filosofia lo bersagliava di chiacchiere inutili.
Solo vacue parole. La matematica era l’unica, vera, lingua universale. La sola in grado di tenerlo ancorato al suolo e capace di regalargli una vita soddisfacente.
Il rovescio della medaglia era lo strascico che rimaneva nella ventiquattrore. E la sua ne era rigonfia.
Nel suo sogno però l’algebra non ricorreva. E allora?
Era un banalissimo corto circuito.
L’orologio a pendolo segnò le otto di mattina, e si risolse a chiamare Anna.
Il sollievo che sentì nella voce assonnata della sua avvenente segretaria, lo fece scalpitare.
L’avrebbe sistemata il lunedì mattina. Questo plumbeo giovedì  gli sarebbe servito per schiarirsi le idee. Un lungo fine settimana a Chiavenna. Ecco la cura al suo malessere.
Si organizzò, ed in breve solcava la statale 36 diretto a villa Ragusa.
La pioggia batteva, ritmica, sul tetto del suo bolide.

La stessa, ininterrotta, bagnava anche lo chalet, perforando il suo intelletto.
Guardò per l’ennesima volta la sveglia sul comodino. Segnava le due del mattino.
Ormai il suo organismo doveva essere esausto. L’aveva stordito con estenuanti esercizi ginnici ed una maratona di sesso da poco terminata.
La palestra di villa Ragusa era fornita di attrezzature sportive all’avanguardia. E la fauna femminile del piccolo paese montano riusciva subito a registrare la sua presenza in loco. Allietandolo.
La pagava, certo,  per lui non era un problema.
Una volta soddisfatto, poteva ritornare ai suoi numeri non perdendo tempo a cercare di intrattenerla.
Ora era pronto per il sonno. Chiuse gli occhi mentre il tamburellare della pioggia si faceva più incalzante. Poi più nulla.
La sua coscienza registrò l’immagine di una volvo nera, accartocciata su se stessa dopo lo schianto.
Uno spettacolo da brivido, con il solito capannello di curiosi che le girava intorno.
La polizia sfollò la gente, e cominciò il suo lavoro.
Una ragazzina era stata travolta sulle strisce pedonali. La strada chiusa al traffico.
Si risvegliò, nero di rabbia per l’impotenza che aveva ancora percepito nella fase onirica.
Lo ancorava al sogno. Tormentandolo.
Il fatto di possedere un auto simile, lo rendeva oltremodo furioso.
Amava la sua macchina quasi più della sua persona. Era il simbolo del suo successo; ora infangato, svilito da una notizia del genere.
Non era un incosciente. Possedeva un buon controllo di sé. In trent’anni di patente, non aveva collezionato nemmeno un incidente. Sicuramente aveva visto la notizia da qualche parte e la sua mente ora gliela vomitava addosso. Doveva calmarsi e riprendere a dormire. Erano passate solo due ore dall’ultima incursione alla sveglia.
Avvertì i grilli frinire in quella strana, gelida, primavera. Il rumore della pioggia era cessato e riuscì a calmarsi, scivolando nel torpore dei sensi.
Poi l’impatto.
Merda, ora l’incubo possedeva anche l’audio e lo martoriava con lo stridio di pneumatici sull’asfalto asciutto.
Sbattè gli occhi cercando di riprender coscienza. Invano. Il sogno lo stava trattenendo a sé. Doveva guardare. Cercare di capire cosa la sua mente disturbata gli stava trasmettendo.
Alberto si concentrò nel sogno e riuscì a scorgere il nome della via in cui era avvenuta la tragedia.
Lo scontro dell’auto sul palazzo d’angolo di Via Orvieto era stato devastante.
Vide a terra lo zaino a fiori della ragazzina coinvolta. La strada invasa dal suo contenuto.
Scoprì l’indirizzo della vittima. Abitava nella via. A due passi dalla sua residenza milanese.
Soffermò il suo sguardo sulla macchina ed intravide il cruscotto rotto che registrava la data di venerdì 17 ore 2.35 del pomeriggio. La luce solare non lasciava dubbi.
Si svegliò, completamente fradicio. Adesso era davvero spaventato. Si asciugò con la salvietta che da tre notti accompagnava il suo sonno frammentato, per poi dirigersi alla scrivania in mogano del suo studio. Accese il computer e si collegò ad Internet.
Le previsioni del tempo per la giornata proponevano sole e buona visibilità.
Non si era visto nel sogno. Non aveva certezze che fosse lui il pirata della strada e non era superstizioso. I suoi colleghi lo schernivano per la sua proverbiale sfida alla sfiga. Lavorava meglio il 17 del mese. Soprattutto di venerdì. I più ne erano terrorizzati e lui ne approfittava a man bassa.
Oggi però non si sarebbe presentato in borsa. I suoi sedicenti colleghi lo avrebbero canzonato per almeno una settimana,infrangendo il suo mito, ma non gli importava.
Il minor rischio gli imponeva di fermarsi. Se l’incidente fosse avvenuto a Milano, lui sarebbe rimasto a Chiavenna.

Il sabato pomeriggio si stiracchiò, pigro, al tenue sole di maggio. Salutò la donna che lo aveva soddisfatto nella mattina e sorrise fra sé.
L’incubo era scomparso e con lui la notte insonne.
Lo sguardo gli cadde sul portatile accanto a lui.
Con un sospiro cedette, e si collegò ad Internet.
Nella cronaca trovò l’articolo che temeva:
“ragazzina viene investita da una bicicletta mentre attraversa il passaggio pedonale di Via Orvieto: testimoni affermano che la giovane è sbucata all’improvviso non permettendo al ciclista di frenare. Nessun danno permanente per entrambi”.
Alberto sospirò. Ora era finita.