UMBERTO - MAMMOLINA

Una prigione cessa di essere tale solo quando si smette di percorrere l’altezza delle sbarre che la costituiscono, così come ogni attesa si interrompe nell’attimo in cui non si nutre più dell’incessante ritmo degli istanti che la costituiscono e si lascia infine fluire le cose senza porsi più domande.
Le cose sono, semplicemente. Punto, dato di fatto, senza richiesta né domanda.
Ciò che arriverà dopo, nell’aria del futuro, sia essa fresca brezza, o gelida tempesta non conta più.

Strinse le mani forte al volante, con quella forza spietata e convulsa che anima la rabbia: si aggrappò a questo come a percuoterlo, oscillando aritmicamente in un movimento che lo portava a dimenare il suo grosso corpo avanti e dietro.
I passanti intimoriti lo osservavano. I passati timori sembravano essere svaniti. Timori, dolori di una vita. La sua. Passi incessanti che a volte sembrano ripercorsi.

“Tu non capisci! Tu non capisci mai niente! Sei uno stupido bestione!”
Le parole di lei lo schiaffeggiavano ancora furiose. Come lo aveva trattato? Come lo aveva sempre trattato? Anni, ed anni, e poi ancora anni.

“Ciccione! Imbecille! Idiota! Non sai fare nulla! Dimagrisci! Mangi come un maiale! Sai quanto mi costa fare la spesa per te ogni giorno? Puzzi di sudore! Il sudore che la tua pelle grassa emana ad ogni minimo sforzo! Mi fai schifo!”

Diciotto anni così trascorsi. Ogni giorno tornando a casa e sentendosi aggredito ogni volta.
Nulla che facesse bene ai suoi occhi. Mai. Nonostante gli sforzi, nonostante i tentativi, nonostante l’impegno.
Ed anche quella sera, alla fine di un giorno di duro lavoro, iniziato alle quattro del mattino a scaricar cassette ai mercati generali, quando si era seduto infine a tavola, stanco ed affamato, ed il sugo aveva inavvertitamente sporcato la sua camicia, lei aveva preso ad inveire.

“Umberto! Sei un’idiota! Un pezzo di cretino! Era una camicia appena lavata! Sai quanto dovrò strofinarla? Già, ma a te cosa importa? Sono io che mi occupo delle tue cose, tu non fai mai nulla! Sei li seduto ad ingurgitare cibo! Un porco si, sei un porco!”

Ma Umberto quella sera non aveva retto, d’un tratto le si era gettato addosso e le aveva stretto il collo fra le grosse mani, fino a spegnere quella voce. Aveva poi preso a sbatterle la testa contro un muro, ed infine si era accasciato a terra stringendola fra le braccia.

“Mamma dimmi che sono bravo! Mamma dimmi che mi vuoi bene!”

Era fuggito in macchina, aveva guidato per ore alla cieca, come in una corsa pazza in cui ci si arresta solo quando il respiro viene a mancare, poi, di colpo si era fermato e si era reso conto di non avere più una prigione intorno, che l’attesa di un gesto garbato da parte di lei, era svanita. A volte questo è il prezzo da pagare per la propria libertà, si era detto. Niente, non esisteva più nulla, se non quel corpo, il corpo di sua madre lasciato li come una marionetta spezzata, senza vita nelle sua casa, a volte il niente occorre per ricostruire un presente. E allora, per un attimo, gli parve di udire una voce di donna -la saggezza delle età passate- sussurrare fino a lui la sua benedizione, dal profondo della terra.