MARINELLA - G&F GIAMPIERO PIERI

Era troppo grande, non la potevo certo vedere come la mia possibile fidanzatina. Aveva quasi tre mesi più di me, e non capivo bene cosa avesse sempre da guardarmi così intensamente. O meglio, lo capivo ma mi spaventava tantissimo. Lei però mi aspettava ogni giorno fuori dalla sua classe e mi puntava, ben decisa a catturarmi. Io invece ero combattuto tra l’attrazione che esercitava su di me e la vergogna a farmi vedere insieme a lei dai miei compagni che non aspettavano altro per canzonarmi. Un giorno, quelle piccole carogne disegnarono sulla lavagna un enorme cuore con i nostri due nomi scritti dentro, e aspettarono ridacchiando l’entrata della Bartolozzi per godersi il malizioso interrogatorio a cui lei mi avrebbe sicuramente sottoposto. La professoressa d’italiano era una signora molto più anziana di mia madre, ma dolce e protettiva come lei. Allora, dimmi un po’, tu, chi sarebbe questa Marinella che ami così tanto? Diceva la Bartolozzi fingendo di leggere sulla lavagna. Conosceva benissimo la Marinella in questione, visto che stava venendo proprio dalla terza B, ma lo stesso non rinunciò a farmi qualche domanduccia imbarazzante. Io, disse, ne conosco una, e si soffermò un attimo a soppesarmi bonariamente, che l’è sempre lì a dirmi quanto le garbi un ragazzino qui nella terza C, ma anche di quanto lui sia timido e imbranato. Era come se mi avesse detto: oh, io te lo sto dicendo, però deciditi ragazzo! A quel punto avvampai di rosso e mi bloccai farfugliando giustificazioni non richieste. Hanno inventato tutto loro, professoressa, io neanche la conosco, quella lì. Ma non volevo negare oltre. Mi piaceva che i miei compagni di classe, maschi o femmine che fossero, sapessero che una ragazza, una femmina, si interessasse molto di me. Va’ là, Adone. A chi tu la vòi dare a bere? Replicava la Bartolozzi. Te… tu se’ un’acqua cheta, te lo dico io, e mi guardava faceta scuotendo la testa. Umh, te… tu se’ troppo sornione pe’ miei gusti, bisognerà tenerti d’occhio! Da quel momento smetteva di parlare in dialetto e iniziava la lezione d’italiano.
Ma non c’era verso. Nonostante tutte le esortazioni a farmi avanti che credevo di riconoscere nelle parole della professoressa e dei compagni, quando mi trovavo di fronte a Marinella che mi fissava coi suoi occhi nocciola, le gambe mi trasmettevano un fremito d’indecisione a tutto il corpo, e non riuscivo a dirle nient’altro che un formalissimo ciao. Insomma, ero frastornato. Mi piaceva come Marinella mi cercasse ogni giorno, ma non sapevo cosa dirle. Non avevo il coraggio di dichiararle apertamente che sì, anche lei mi piaceva tanto, ma non capivo cosa avrei potuto fare insieme a lei. Mica me la posso portare dietro a pescare, una femmina, no? Che figura ci faccio con gli altri? Dicevo a me stesso. Francamente, mi diverto molto di più sulla pescaia, con gli altri ragazzi di S. Maria Novella, a insidiare l’alborelle, le lasche, o le cecoline che a maggio risalgono la corrente, che non a passare un pomeriggio intero con una ragazza. A far che, poi, a studiare?
Fu lei a prendere l’iniziativa. Per salire alle nostre classi si percorrevano tre rampe di scale, strette tra due pareti, che si avvitavano su un grande muro portante. Alla ricreazione, per comprare cornetti o brioches, dovevamo per forza ridiscendere al piano inferiore. L’improvvisato banchetto gestito dal bidello si trovava in un grande androne su cui si affacciavano a raggiera altre aule e corridoi.
Fu come se fosse oggi. Marinella mi attende in cima alla seconda rampa di scala. Mi blocca. Senti, mi son scordata i’ borsellino a hasa, mi presti mica dugento lire per comprarmi una brioscia? Io la guardo, affascinato. Finalmente! l’eroe è chiamato a dare prova della sua capacità di venire in soccorso alla sua bella. Frugo in tasca e trovo due tre monete. Scelgo quelle giuste e gliele porgo, impacciatissimo. I compagni intanto salgono e scendono passando frenetici attorno a noi lanciandomi incitamenti irripetibili. Marinella prende le monete, ma mi trattiene la mano, mi intreccia le dita. Grazie, mi sussurra appena. Poi con l’altra mano mi cinge alla vita e mi attira contro di lei mentre inizio a sudare. È un attimo. Mi bacia sulla bocca. Si stacca un attimo e mi guarda sorridendo per vedere che effetto mi fa. Io sono immobilizzato, ho la bocca serrata. Allora, con una piccola pressione dell’indice dall’alto verso il  basso mi costringe a schiudere leggermente le labbra. Poi si riavvicina e mi passa una goccia di saliva sulle labbra spalmandola dolcemente a destra e a sinistra con la punta della lingua. Il suo odore di ragazza mi acchiappa, vorrei sentirne ancora e ancora. A quel punto però mi rendo conto che alcune parti del mio corpo si muovono per conto loro ponendomi in una evidentissima situazione imbarazzante. Solo la moglie di Lot avrebbe potuto descrivere il senso d’immobilità che cosa provo in quel momento.
Mi salva la campanella di fine ricreazione. Che grullo che sei! Dice Marinella staccandosi da me, e corre felice giù per la scala per comprarsi l’ultimo cornetto rimasto. Io invece fuggo nella direzione opposta salendo a due a due le scale e corro a sedermi al mio banco, più che rosso questa volta mi sento verde. Ecco perchè mi guardano tutti come un marziano, con risolini che vanno tra la presa in giro o l’ammirazione, chissà.
Non mi misi mai con Marinella. Sono passati decenni ormai. E non ho mai saputo che direzione avesse preso la sua vita, una volta finita la scuola. Se non fosse stato perché anni addietro dovetti ritornare alle vecchie Scuole Leopoldine per ottenere la copia di un documento, questa piccola storia si sarebbe persa nel mio passato. Spesso il semplice tornare nei luoghi dove si sono vissute delle emozioni ne evoca il ricordo che altrimenti, fino a quel momento, dormiva sopito nel fondo della memoria. Mi sento sempre attratto dai posti dove sono vissuto, le case e i loro dintorni, ma non sempre mi capita di tornarci senza un’occasione. Quella mattina avevo lasciato la macchina a Santa Rosa, vicino alla pescaia, e a piedi avevo percorso il lungarno fino al Ponte alla Carraia, allungando un poco il percorso. Dovendo andare in piazza S. Maria Novella avevo deciso di ripassare nella stradina dove abitavo molti anni indietro coi miei genitori. La zona è adesso interdetta alle auto, una misura che avrebbe dovuto proteggerla ma inadeguata contro il cambiamento di vita in Italia in questi decenni. Non esistono più le bottegucce dei restauratori di mobili, e neppure quella del fabbro. Quando ero piccolo li conoscevo tutti, e mi parlavano ancora con il vernacolo che usava mio nonno. Oh, vien qua boccia, ‘arreggimi fermo sto’ legno che gli pianto du’ bullette. Se davo loro una mano, a volte mi davano qualche moneta di mancia. Quei laboratori ora sono diventati improbabili punti di ristoro per passanti. Anche il meccanico di biciclette ha chiuso da tempo. Nella sua bottega c’è adesso una bionda signora di mezz’età che vende ninnoli d’argento da lei stessa prodotti, roba da turisti. Parla con un accento straniero.
Quando svoltai in via Della Spada per raggiungere la piazza mi imbattei in una anziana signora, si sorreggeva con un attrezzo di metallo, cromato, con quattro zampette all’estremità inferiore, un passetto alla volta. Scesi dal marciapiede per farle strada. Lei alzò un momento la testa come per ringraziare e mi guardò per un attimo, muta. La riconobbi io, per primo. La vecchia puttana del quartiere che esercitava allora il mestiere insieme a sua cugina, già anziana quando io ero piccolo. Il loro protettore era un biondino segaligno che, dicevano, girava armato di coltello e dormiva con la cicca in bocca. Non usavano ancora le pistole nelle tasche dei piccoli malavitosi, a quel tempo. Lui era l’unico ad avere l’Alfa Romeo Giulietta millettré, il mio babbo e gli altri artigiani giravano al massimo con l’otto e cinquanta Fiat. In realtà, erano le due cugine a proteggere lui, probabilmente. Ma non c’era nessuno da difendere negli anni Sessanta nel quartiere, non c’era ancora bisogno. La presenza delle due donne non dava fastidio a nessuno, erano parte attiva del quartiere. In fondo, loro offrivano un servizio, come il fabbro che veniva a cambiare le serrature o il carbonaio che vendeva la sua merce in sacchetti di carta della giusta misura per alimentare le vecchie stufe di ghisa. La Jole mi scrutò per qualche secondo. Mi riconosceva? Qualcosa nel mio sguardo doveva avere acceso anche in lei un vago ricordo. Mi aveva scrutato tante volte, quale improbabile cliente, quando andavo a scuola. Ma poi mi sorrise mestamente come a volersi scusare di quel pensiero ribelle che le sfuggiva via. Riprendemmo ognuno la nostra via.
Arrivai al loggiato dove c’era l’ingresso delle Leopoldine. Una signora mora, più o meno della mia età, mi informò che la scuola era stata trasferita diversi anni prima. Per motivi di viabilità, disse. Cercai nei suoi occhi castani quelli di Marinella, improvvisamente riaffacciatasi da una finestrina del mio cervello. Ma non era lei. Allora provai a cercarla con lo sguardo in mezzo alla piazza, come facevo quando uscivo da scuola, immaginando di vederla ancora seduta come un tempo sul bordo della fontana, ma la magia questa volta non si realizzò. La piazza era piena di filippini, doveva essere il giorno in cui si ritrovano tutti insieme. Salutai la signora e imboccai via della Scala, deluso. Anche la cartoleria dove compravo sempre i fogli protocollo per il compito in classe aveva chiuso ormai, non essendoci più la scuola lì vicino. A quel punto persi interesse per il documento che andavo cercando di ottenere, necessario per partecipare un concorso. Arriva un momento, nella vita di qualcuno, in cui nulla di quello che si sta facendo o si progetta di fare sembra avere più un senso. Figuriamoci un concorso che sai che non vincerai mai.