La lettera arrivò con la distribuzione del pomeriggio; la portò il Caleffi, del terzo fanteria.
- Tre ore di franchigia per te, - disse il tenente che sparì dietro a un muro ancora in piedi, con la busta in mano.
Stavano sistemati mezzi addormentati; sdraiati alla meglio sulla paglia del ricovero al coperto del muro di cinta vicino alla chiesa, trecento metri dalla linea di fuoco. Protetti dalla bancata, fucile ed elmetto pronti, sonnecchiavano; tutti, tranne l’ufficiale, che, nascosto al nemico, in piedi nel suo comando leggeva la lettera alla luce fioca di un lume a petrolio.
Il Bartoli, il nuovo tenente, bruno, alto, solido e veterano, era arrivato col secondo battaglione; aveva rilevato il sergente Alfieri che gli aveva passato le consegne con un saluto e un generico tutto tranquillo. Aveva perlustrato l’avamposto, cambiato qualche sentinella ai lati dei confini, aggiunto una vedetta in cima al campanile, dato un’occhiata al mitragliatore e alle munizioni, e poi si era ritirato.
Era di poche parole il tenente; l’avamposto numero 9, lo conosceva bene; l’avevano scelto per tenere la posizione. E lui, al comando della squadra migliore, aveva caricato sui muli viveri e munizioni, e si era inerpicato su per la collina, con il buio.
A poca distanza dalla linea di fuoco la serata scorreva tranquilla. La lettera portata dal Caleffi, il tenente se l’era infilata in tasca ripiegata in due. L’aveva letta, poi riletta, e si era dovuto appoggiare per non cadere, per via delle gambe che tremavano. Accanto al lume che spargeva puzza di petrolio e fumo, aveva sorriso, e il respiro era diventato solido. Solitamente al silenzio e al buio rischiarato da un timido quarto di luna, preferiva il rumore delle mitraglie, ma non quella sera. Quella sera cercava pace, pace per godersi quella lettera che di tanto in tanto sfiorava con le dita.
In lontananza il rumore lontano di un cane che guaiva, si confondeva con quello di un coro che proveniva da qualche trincea. Non ci sarebbe stata azione quella sera, pensò prima di distendersi stanco sulla brandina.
Poi ci fu lo sparo; e altri ne seguirono e altri ancora, e tutti dalla stessa direzione. Il Bartoli sbucò dal comando, testa per aria.
- Da dove hanno sparato? – Chiese alla vedetta in cima al campanile.
- Laggiù, de bass, contro el posto de guardia numero sei.
Dopo un minuto arrivarono di corsa il napoletano e il caporale Testa matta, moschetto in spalla, mitraglia imbracciata, pronti all’azione.
- Ma che cazzo… – disse il sergente, – sparano pure e notte, sti strunz ?
Tornò il silenzio ma c’era attesa, e il sergente propose:
- Wee!, Testa matta, che dici ce lo facciamo quel rotto in culo del cecchino?
- Sergente,- disse il tenente - niente sciocchezze per stanotte; mandi solo una ronda a vedere, tra poche ore sloggiamo.
Non fece in tempo a muoversi nessuno che arrivò un soldato dal posto di guardia sei, con un biglietto in mano.
Il tenente lesse e annuì.
Un crepitare di mitraglia lo fece trasalire. Si affacciò dalla feritoia in tempo per vedere i lampi dei colpi che vagavano verso il punto di osservazione sul canalone. Si riparò e cacciò un’urlò verso le trincee:
- Hei, passate voce: han voglia di menar le mani; nessuno apra il fuoco, state al coperto e pronti a ripiegare!
Poi puntò il binocolo sulla linea di fuoco come un fucile, sembrava avesse dimenticato qualcosa, e chiese:
- Chi è di guardia sul canalone?
- L’Ersilio, - rispose il napoletano.
- Manda qualcuno ad avvertire che ci ritiriamo! – Aggiunse il tenente.
Il sergente voltò lo sguardo verso il muro di cinta e chiamò Mandalò che sonnecchiava nel suo buco.
- Guagliò we, numero tredici, tocca a te; presto pronto, armamento liggiero.
Il poveretto scattò in piedi mezzo addormentato; riempì di bombe a mano la giberna, se la mise a tracolla col fucile, e poi rispose:
- Comandi!
- Wee, Mandalò! Statti accorto; stanotte pure le pietre tengono l’uocchi. – Disse il sergente sistemandogli l’elmetto a manate.
- Sissignore, signore! Aggiunse lui con due dita in fronte, pronto a partire.
Vent’anni o poco meno; faccia senza un pelo; sincero come un bicchiere di vino, secco e allampanato, aria sveglia. Se c’era da usare la picozza o il badile, Mandalò rispondeva invariabilmente con la stessa tiritera: – tengo la febbre! - ma se c’era da menar le mani, lui era il primo.
- Mandalò…, stai coperto, hai capito? Vai e torna con l’Ersilio! - Disse il tenente.
- Sissignore, signore. - Rispose lui e si avviò.
Camminava lungo il bordo della trincea tenendosi in equilibrio col fucile; fra le asperità del passo più scoperto si muoveva sicuro, dei piedi e del nemico.
– Stai basso. – disse tra se, il tenente. – Copriti cazzo! Non così!- aggiunse sotto voce.
Per fortuna quel minchione del Mandalò, nel punto più pericoloso, si abbassò come se l’avesse sentito; s’inginocchiò, strisciò, sollevò la testa per rispondere al richiamo dell’Ersilio e la fucilata arrivò con una fiammata da lato di sinistra.
E lui si accasciò.
- Merda! - Gridò il tenente col pugno rivolto verso lo sparo, incerto se scatenare un inferno da quel lato; ma non ebbe tempo di reagire, che un altro colpo risuonò dalla stessa direzione.
- E due! - disse un soldato dietro di lui.
- L’Ersilio! - esclamò il sergente.
- Che cazzo dici, urlò Bartoli allibito.
- Signor tenente, ma nun aviti visto? – disse stupito, - Ha aizato a capa e l’hanno preso; l’ho visto cadere.
A Est cominciava a schiarire; la luce lasciava intravedere i corpi dei due soldati distesi sulle pietre. Il tenente si riparò gli occhi dalla luce, si sporse oltre la bancata e, rivolto al sergente, aggiunse:
- Senti Esposito… prima di ripiegare, manda qualcuno; vivi o morti che siano, riportali indietro.
Poi si mise la mano in tasca e fece un sospiro. Strinse la lettera ed ebbe un fremito, un presentimento, quasi un gelo.
L’ultimo colpo che sentì, fu quello di un moschetto a lunga gittata.
Lo centrarono in mezzo agli occhi e lo stesero sulla bancata.
La lettera ripiegata scivolò dalla sua tasca, si posò ai suoi piedi come una farfalla col le ali spezzate. La guerra del tenente Bartoli finì così.
Il sergente Esposito, detto il napoletano, prese il foglio ripiegato in due, macchiato di fango, lo aprì, e lesse sottovoce. Cerano scritte solo poche parole.
Luigi,
amore mio,
sei diventato padre.
Federica è nata stamattina alle cinque e tre minuti...
ElenaIl Sergente guardò l’ora; fu un riflesso condizionato il suo: erano le 5 e quattro minuti, quando ripose il foglio nella tasca del tenente e lo fece portare via senza una parola.
Qualcuno quella notte compose una ballata: la cantano i soldati in trincea, per spegnere il lampo di uno sparo o per addolcire le guerre di chi, seduto a una scrivania, decide di farla combattere a qualche fesso, nel fango e nel fosso di una trincea.
La ballata dice così:
Siamo venuti
da lontano
per una guerra, mamma
di cui nulla sappiamo.
Prega per noi ogni sera
intanto che proviamo
a capire a chi toccherà
la prossima fiammata.
E tu tenente dormi
e lasciaci sognare
per un’altra notte ancora
la morte può aspettare.
(Ispirato a - In Trincea - racconto di Federico De Roberto -)