SCUOLA DI CAMPAGNA - G&F GIAMPIERO PIERI

Il quattro novembre era passato solo da pochi giorni. Quella mattina mio nonno mi aveva portato con lui in un punto della collina da cui si vede buona parte della pianura sottostante. La piana sembrava un enorme specchio luccicante, sporcato qua e là da macchie scure che emergevano a screziarne la superficie argentata. L’aeroporto non esisteva più. Quella che all’epoca era la campagna circostante alla città, non ancora edificata come ai giorni nostri, era completamente sommersa dall’acqua torba dell’Arno. Visto dalla collina quello spettacolo luccicante era niente male, ed io neanche immaginavo che là sotto migliaia di persone stessero lottando con il fango sporco di nafta per cercare di ripulire case e strade. Non si parlava ancora di consumismo, nonostante la forte crescita economica del paese in quel periodo. Tutti gli oggetti di un certo valore ancora utilizzabili furono ripescati, lavati con cura e recuperati all’uso quotidiano. Per aiutare certi parenti, commercianti di pelletteria, mio padre aveva comprato, per una cifra da mercato nero, un canottino gonfiabile con cui raggiungere la piccola azienda e cercare di trasportare all’asciutto quanto poteva ancora essere recuperato. Loro, i parenti di Brozzi, si erano salvati grazie alla prontezza di spirito di mio zio. Quando l’acqua aveva ormai sommerso completamente il piano inferiore della casa, sparando con il fucile da caccia lui era riuscito ad aprire un foro nel tetto attraverso cui sfuggire alla piena montante, arrivata in quel punto a circa sei metri d’altezza. Passarono diverse ore sul tetto nell'attesa dei primi soccorsi, sperando che il livello non raggiungesse anche l’ultimo loro rifugio. Erano tutte disavventure che bisognava affrontare, nella mia fantasia di bambino, con imprese da eroe. Di questo parlai nei pensierini che la maestra ci aveva dato come compito a casa, in attesa della riapertura delle scuole.
Finalmente arrivò il giorno di riprendere le lezioni. Due miei compagni di classe, italo americani, mi avevano regalato una delle prime camice a fiori che già iniziavano a girare negli Stati Uniti. La mamma approfittando del periodo di sospensione della scuola mi aveva fatto aggiustare i capelli senza tagliarli, anche se non erano ancora lunghi come quelli dei ragazzi di Liverpool che piacevano tanto a mia sorella più grande. Arrivai in classe con i miei amici, tutti e tre pettinati a caschetto e indossando le nostre belle camicine colorate che spuntavano appena da sotto ai polsini dei grembiuli neri. Salutammo la maestra mostrandole il nostro nuovo modo di essere, orgogliosi della novità che stavamo introducendo in quella piccola scuola di campagna. Ma la vecchia strega ci squadrò indignata per qualche secondo e poi, scandendo piano le parole perché gli altri compagni sentissero bene ci disse, stizzita:
_ “Nella mia scuola i maschi non portano camice a fiori, sono cose da femmine. Andate a casa a cambiarvi, immediatamente” - il tono della maestra non ammetteva repliche – E domattina non tornate in classe se non vi sarete tagliati i capelli”! Il giorno dopo la madre degli americani venne a chiedere spiegazioni alla maestra. Quando se ne andò portò via con se i due figli per iscriverli ad un istituto privato, vicino alla città. Io invece dovetti rimanere nella vecchia scuola di S. Silvestro. I miei genitori erano persone semplici. Mio padre lavorava undici ore al giorno in una ceramica nel Padule, mia madre badava alla casa, senza tante idee proprie sulla modernità che già incombeva in Italia. Una scuola a pagamento non rientrava nelle loro possibilità. Non pensarono neppure di poter dire la loro e contraddire le imposizioni della maestra. Si adattarono e basta.
Ora dovevo farmi a piedi la strada da solo, tutti i giorni. In campagna non si conoscevano grandi pericoli e lo scuolabus non era ancora un servizio consolidato. Non esisteva neanche il rientro pomeridiano, così, appena la bidella si affacciava alla porta per aspettare il via libera dalla maestra tutti noi scolari uscivamo correndo chiassosi. D’inverno recuperavo guanti e berretto, con il pon pon di lana nella parte superiore, che avevo appoggiato al mattino su un vecchio banco accanto alla stufa di terracotta e mi precipitavo fuori con i compagni.
Scherzavamo tutti insieme per qualche minuto. Poi ognuno se ne andava via per conto suo. Lungo la strada io mi fermavo a fantasticare ad ogni vecchio ceppo d’albero che incontravo, ad ogni siepe che la divideva dai campi. Mi affascinavano quei giochi d’ombra che creavano miriadi di micro mondi tra le radici contorte nei greppi, i buchi dei topi nel terreno, il volo dei bombi. In un certo punto del percorso i contadini avevano innalzato un grande pagliaio. Nella mia fantasia quello era sicuramente il rifugio di Clorofilla, l’eroico animaletto di razza non ben definita, spietatamente combattuto dai malvagi topi neri campagnoli. Allora appoggiavo la cartella vicino alla siepe e strisciavo sotto tra gli arbusti attraverso un varco accessibile solo a me. Mi avvicinavo con circospezione al pagliaio in cerca di Clorofilla, per offrirgli un’alleanza nella guerra con i ratti, cercando in tasca i sassi migliori per armare l’archetto, la mia inseparabile fionda ad elastici. Dopo un po’ mi arrivava lontano il richiamo di mamma. Allora salutavo il miei amici, stabilendo una tregua fino al giorno dopo, raccoglievo la cartella e correvo verso la mia fetta di pane e Nutella. Ogni giovedì mi aspettava il Corriere dei Piccoli perfettamente piegato in due nella sua fascinosa busta color carta da zucchero. Era uno dei momenti più belli. Lo sfogliavo quasi con ingordigia cercando da prima proprio le ultime notizie sull’interminabile guerra tra Clorofilla ed i suoi nemici di sempre. Poi passavo piano piano a scoprire tutte le altre chicche capaci di far partire al galoppo la mia fantasia. Il giorno dopo ricominciava da subito l’attesa del prossimo numero. E’ un bambino che corre troppo con la fantasia, ripeteva spesso la maestra a mia madre, forse più per abitudine che non per un’attenta valutazione del suo scolaro. Lei d’altra parte doveva portare avanti tre classi contemporaneamente e non poteva certo dedicarsi anima e corpo esclusivamente a quel ragazzino senza nessuna qualità particolare.